Racconti Fantasy

Helluin

di Claudius

Capitolo I
 Molti interrogativi

  

Il sole cominciava a gettare i primi raggi di luce oltre le scure fronde degli alberi. Il lato della collina ancora avvolto dalle fredde tenebre era impregnato di una calma innaturale, almeno così sembrava. In una piccola radura, nei pressi di un’escrescenza rocciosa vi erano dei movimenti. Alcuni uomini, con delle armature stavano fronteggiandosi tra loro. Indossavano tutti un mantello blu notte ma vi erano due gruppi distinti. Uno portava sul mantello una grande falce di Luna argentata e l’altro sfoggiava una lucente stella con numerose punte.

“Ah! Dannazione” fece appena in tempo di terminare l’imprecazione quando vide un altro suo soldato crollare a terra, in seguito ad un poderoso fendente di spada dell’avversario. L’aria era impregnata dell’odore dolciastro del sangue ed una fredda atmosfera circondava il combattimento. Quale follia aveva scaturito quel dannato combattimento? Non c’era il tempo per chiederselo. Feadrim sapeva solo che doveva rispondere agli attacchi degli avversari, tra l’altro sempre più incalzanti, anche se erano della stessa razza; entrambi con lo stesso sangue elfico. Ed elfo era quel guerriero che crollava a terra, trapassato da una lancia ad un polmone. Elfi erano anche i guerrieri accasciati sul freddo terreno della radura.

Grida si espandevano per tutto il versante della collina e le loro eco rimbombavano nelle orecchie dei soldati che ancora combattevano. I cavalieri con il sigillo della Luna cominciavano a subire gravi perdite e lentamente arretravano verso il lato est della collina, allontanandosi dalla parete rocciosa. Su questa vi stava, immobile, un soldato a cavallo, con un pesante elmo che gli copriva il volto. Per un attimo a Feadrim parve che gli sorridesse ma non poteva dirlo con certezza. Il cavaliere roteava un pesante spadone sopra la testa e si potevano vedere gli sbuffi che si condensavano al freddo della mattina; diceva qualche cosa ai soldati della Stella, distribuiva tetri ordini di massacro. Nemmeno i volti di quei guerrieri mostravano piacere ad uccidere i loro vecchi compagni, ma sembrava che si rassegnassero all’idea di doverlo fare.

Uno di questi, con dei penetranti occhi verdi e dei lunghi capelli biondi, corse in direzione di Feadrim agitando convulsamente la spada. Gridava.

Con una mossa veloce il soldato sviò il colpo dell’avversario con la sua arma e poi abbatté un tremendo colpo di piatto su di un rene. L’elfo biondo sgranò gli occhi in un silenzioso lamento di dolore, in qualche secondo di apnea vide tutto nero, poi si accasciò sulle ginocchia e restette fermo per qualche momento a riprendersi.

Era giusto il tempo che serviva a Feadrim per scartare di lato, per qualche metro, e aiutare un suo compagno spingendo a terra un oppositore. Questo cadde pesantemente a carponi e il suo avversario gli piantò un colpo sulla nuca col manico della spada, tramortendolo. Feadrim lo guardò preoccupato; osservandosi un attimo attorno e soffermandosi sulla figura a cavallo disse “Che diavolo sta succedendo qui?! Che il nostro Dio ci fulmini se continuiamo con questa follia,” si asciugò con un guanto un lato della bocca, “non capisco proprio che suc…” Un soldato della Stella gli balzò addosso, era quello che aveva stordito in precedenza, non portava l’arma ma ad ac-compagnarlo ve ne era una più efficace di tutte le altre, l’ira.

Feadrim cadde a terra e mollò la presa sulla sua spada. Crollò rovinosamente su di una pietra piatta, poco sporgente dal terreno. Il metallo dell’armatura stridette ma lui non sentì il dolore in quel momento. Gridava!

Il suo assalitore aveva gli occhi sbarrati dalla follia ed era in preda ad una furia omicida, i suoni si attutirono fino a scomparire e l’aria sembrava non voler entrare nei polmoni del giovane elfo. L’aggressore sbraitava qualche cosa sopra di lui, agitando i pugni ma Feadrim non riusciva  a pensare, non respirava…

Ad un tratto vi fu un baluginare d’acciaio e la testa dell’elfo biondo sembrò per un attimo, squarciarsi. Feadrim vide tutto rosso. Che cosa stava succedendo? Continuava a domandarselo.

Il cuore gli pulsava tremendamente forte ed il respiro stava tornando, anche se difficile ed affannoso. Una mano pesante gli si poggiò ad una spalla e per un attimo sembrò sollevarlo. Era solo un’impressione probabilmente. Si sentì il vuoto sotto le spalle. era in piedi! Nuovamente in piedi. Una mano guantata gli passò ruvida sul viso e dopo alcuni attimi riuscì ad aprire gli occhi. “Tutto bene ragazzo?” disse un elfo con dei capelli castani, almeno Feadrim si ricordava che fossero di quel colore, ora erano orribilmente ricoperti di sangue e grondavano di quel liquido. Ai piedi del ragazzo vi era un cadavere, era un guerriero con dei bei capelli biondi, Feadrim inorridì. Gli mancava parte del volto, probabilmente staccata da un fendente giunto dal suo salvatore. Il guerriero della Luna si sentiva sporco, bagnato. Tremava.

“Feadrim? Sei tu?” disse l’anziano guerriero che gli si muoveva di fronte mentre gli porgeva l’arma che era caduta durante la colluttazione. Non vi erano suoni, un silenzio di tomba opprime-va tutte le azioni che avvenivano nelle vicinanze. Il ragazzo insanguinato si guardò attorno mentre con la mano destra cercava affannosamente la presa sull’elsa della spada.

La visione era struggente. Numerosi guerrieri, avvolti nei loro mantelli blu, giacevano riversi al suolo. Alcuni scappavano o si afflosciavano in ginocchio piangendo, forse dopo aver intuito di aver ammazzato un consanguineo. Vi erano tre guerrieri della luna che mantenevano una formazione serrata ai margini d’un boschetto di piccoli abeti.

“Vieni con me ragazzo!” ordinò stancamente l’uomo che gli porse la spada. L’aveva già visto da qualche parte ma non capiva. Chi era?

“Zio!” urlò ad un tratto mentre compiva il primo passo dietro l’uomo. Questo si voltò legger-mente e Feadrim poté scorgere un sorriso sul suo volto terrorizzato. Possibile che fosse talmente scioccato da non riconoscere lo zio?

Uno dei tre guerrieri che combattevano chiamava i compagni alla ritirata, dato che i soldati della Stella erano troppi per loro. Così Feadrim e lo zio si diressero, sostenendosi, verso i loro com-militoni. La corsa fu estenuante e giunsero alle spalle dei tre guerrieri completamente esausti. Uno dei tre, che ora impugnavano gli archi, si volse a Feadrim, mentre anche lo zio prendeva quell’arma e incoccava la prima freccia.

“Che diavolo sta succedendo?” urlò il guerriero, squotendo con forza le spalle del ragazzo. Questo aveva gli occhi lucidi, persi nel terrore e nel tormento. Nemmeno lui capiva il significato della situazione. Non doveva accadere. Cercò di fare mente locale ma si ricordava veramente poco, solo dei suoi compagni, i membri dell’ordine della Stella, che cominciavano a rivoltarsi e ad attaccarli di colpo. Non doveva succedere. Feadrim scoppiò a piangere mentre il guerriero che lo teneva lo mollò pesantemente sul terreno.

Lo zio e l’altro guerriero si scambiarono qualche parola. Fùnchalias era un ottimo compagno, ma non riusciva ad ammettere che i membri della Stella li stessero ammazzando, eliminandone uno ad uno, con un distacco mentale da far rabbrividire. C’era qualche cosa che non andava, ma cosa?

I quattro arcieri si alzarono in piedi e due aiutarono il ragazzo a sollevarsi, poi si diressero barcollanti e feriti all’interno del boschetto mentre dietro di loro giungevano delle grida assassine.

Lo zio apriva la strada, seguito dai due arcieri più giovani e dal nipote, mentre Fùnchalias stava in retroguardia, continuando ad osservarsi dietro le spalle.

Ad un tratto vi fu un rapido sibilo, seguito da un rantolo silenzioso. Uno degli arcieri, quello alla destra di Feadrim, cadde a terra, trafitto da una frecce al collo.

“E’ una pazzia! Una tremenda pazzia” sbraitò Fùnchalias mentre delle frecce gli sibilavano sopra la testa. Anglachel, lo zio di Feadrim, si abbassò di scatto, urlando. Era stato colpito anche lui, ma probabilmente, in maniera non grave. Feadrim era smarrito ma cominciava lentamente a riprendersi dalle oscure visioni di terrore e morte che gli offuscavano la mente. Era assieme al suo migliore amico, e c’era anche lo zio con lui, che si strappava una freccia dalla spalla sinistra.

I quattro guerrieri della Luna corsero molto; lentamente sembrava che i loro inseguitori desistessero dal desiderio di seguirli. Erano in una zona ombreggiata e si poteva udire il chiaro scrosciare dei flutti di un ruscello a poca distanza.

“Andiamo verso l’acqua! Dobbiamo riposarci un attimo!” sbraitò nuovamente Fùnchalias, mentre controllava il secondo arciere, che gli era crollato vicino. Era morto!

“Dannazione! Dannazione! Dannazione!” oramai il panico e l’angoscia assalivano i tre compagni, che diavolo stava accadendo? Non riuscivano a capire.

Anglachel camminava velocemente di fronte ai due amici mentre il guerriero, più possente di Feadrim, sosteneva l’amico con una spalla. Avevano poche speranze e lo sapevano.

Giunsero poi alle rive del ruscello, passarono velocemente lo stretto corso d’acqua e prose-guirono rapidi. Lo zio di Feadrim stava lentamente rallentando quando, ad un tratto, si afflosciò a terra, poggiandosi ad un’escrescenza del terreno con la schiena.

“Zio!” urlò il ragazzo gettandosi verso il parente. Questo respirava affannosamente e si teneva le mani compresse contro la spalla sinistra, dei fiotti di caldo sangue zampillavano da sotto le dita ed un’espressione di dolore copriva il suo volto. “Lasciatemi qua ragazzi” disse in un rantolo. La situazione stava fuggendo dalle mani dei tre guerrieri e ben presto sembrava che sarebbero impazziti. Il sole si era sollevato ed una calda luce illuminava le spalle ai due ragazzi, che proiettavano le loro ombre sul parente di Feadrim.

“Lasciatemi a terra! Ve lo ordino! Capito?”

I due ragazzi lo fissavano tristi e continuavano a scambiarsi degli intensi sguardi interrogatori quando, ad un tratto, vennero distratti da degli urli dietro di loro. I guerrieri della Stella stavano arrivando! Ben presto li avrebbero catturati. Feadrim tremava ma cercava in ogni maniera di resistere all’incessante tremito. Nel frattempo anche Anglachel cominciava a tremare e gemeva dal dolore della ferita.

“E’ un ordine! Lasciatemi a terra!” continuava a ripetere ma i due ragazzi sembravano non volerlo accontentare. Fu rapido il guerriero dai lunghi capelli neri a scansare il ragazzo e a sol-levare l’elfo ferito sopra una spalla. “No, caro zio! Non ti lascerò mai nel pericolo da solo!” disse Fùnchalias mentre il vecchio elfo cercava di sottrarsi dalla sua stretta. “Idiota!” imprecava mentre veniva issato sulla spalla e mentre il suo sostegno cominciava a muoversi.

“Andiamo Feadrim!” disse poi Fùnchalias, lasciando cadere la spada sul terreno, che era sporco del sangue di Anglachel, il fabbro di Caras Galadon. Che stava accadendo? Non riuscivano a capirlo.

Le urla degli inseguitori si facevano sempre più intense e lo zio di Feadrim perse i sensi, era ora un pesante fardello per l’impavido elfo, ma non l’avrebbe mai lasciato lì. Non l’avrebbe fatto per Anglachel; soprattutto, però, non lo faceva perché Feadrim poteva saltare di testa e rimanere con il parente, per venire massacrato dai loro inseguitori impazziti.

Assieme i due ragazzi corsero alla meglio sotto le fronde dei piccoli alberi del boschetto, scansando i rami più bassi. Feadrim apriva la strada, anche se era l’amico a dire dove andare, mentre l’altro guerriero, con in groppa il parente, lo seguiva più lento e affaticato. Questo sembrava lentamente invecchiare sotto il peso del fabbro in armatura, mentre faticosamente trascinava i piedi sul terreno e si manteneva a stento dietro all’amico.

Giunsero dunque in una piccola radura circondata da alberi e si nascosero alla meglio dietro un gruppo di questi che copriva una bassura del terreno, tra le rocce. Stesero Anglachel, che rimaneva ancora privo di conoscenza, con la schiena poggiata ad una di queste, coperta da un soffice strato di muschio. I due si sedettero a riposare qualche attimo.

Il sole si era oscurato. I compagni non si erano accorti delle grosse nuvole che erano giunte da ovest, gettandosi a capofitto nella loro direzione, minacciandoli con i loro tuoni incessanti. “Ci mancava solo il brutto tempo!” disse Feadrim cercando, a stento, di sfoggiare un sorriso sporcato sul lato destro da una crosta di sangue che gli calava dalla tempia destra. Il liquido che si era asciugato prima sul lato della bocca doveva essere il suo sangue, difatti il guanto con cui aveva cercato di tetergersi era sporco di quest’ultimo. Fùnchalias osservava lo zio dell’amico ansimando, aveva l’aria molto preoccupata e continuava a fissare la ferita sulla spalla del guerriero.

“Sono preoccupato Feadrim. Tuo zio ha una brutta ferita, è svenuto e non mi sembra in buone condizioni. Se posso essere realista…” osservò l’amico, mentre questo si puliva con il pesante mantello la scia di sangue che gli solcava il lato destro del viso, poi riprese “Mi dispiace. Se posso essere realista credo che non durerà molto” Anglachel ebbe uno sussulto e si agitò momenta-neamente sulla roccia. Fùnchalias guardava sfiduciato l’amico che assisteva il parente ferito.

Feadrim se ne accorse e sospirò, voltandosi al compagno. “No, mio zio è forte, non si lascerà sconfiggere da una brutta ferita. Non vorrei mai perderlo lo sai…” non riuscì a proseguire, le lacrime amare gli bloccavano le parole. Cominciò a piangere vistosamente mentre l’amico lo avvolgeva tra le forti braccia. La situazione era tremendamente assurda e i due erano schiacciati da tutto quello che era accaduto su quel pianoro, ora ricoperto di sangue elfico.

Dei rumori fecero sobbalzare Fùnchalias e questo saltò allarmato a raccogliere l’arco, la spada l’aveva lasciata sul terreno dove Anglachel era svenuto. “Scappa ragazzo!” disse mentre si inoltrava tra la vegetazione acquattato come un gatto durante la caccia. Feadrim non sapeva cosa fare e le lacrime gli sgorgavano ancora dagli occhi, osservò il suo amico che si nascondeva dietro un tronco e tendeva l’arco verso un bersaglio invisibile. Serio in viso come poche statue antiche. Il guerriero scoccò la freccia e un rantolo seguì il sibilo di questa. Aveva ucciso qualcuno, aveva ucciso un elfo. Il giovane guerriero smise lentamente di piangere mentre, agitato, si voltava per cercare la sua arma. La spada giaceva sul terreno, vicino allo zio ed era sporca di sangue. Non si ricordava di avere ferito nessuno tagliando con la spada, ma chi poteva dirlo in quel trambusto? Si avvicinò al corpo dello zio e fece per sollevarlo. Da dietro le spalle gli giunse un lamento. Si volse velocemente verso il suo amico. Questo si era gettato pesantemente contro il tronco dopo che una freccia lo aveva colpito ad un polpaccio. “Vattene ragazzo! Non fare sciocchezze!” disse in un sibilo di dolore mentre si accorgeva che l’amico cercava di sollevare il parente “Lascialo qui! È in buone mani! Fidati. Lo sai che puoi fid…” una freccia si conficco nel tronco che lo proteggeva e lui si scostò, tirandosi più al coperto della pianta. Poi porse uno sguardo d’intesa al compagno. Questo capì il significato e delle lacrime gli scesero lungo il viso. Si volse in direzione della città, si ricordava che lì era sempre al sicuro, sotto il caldo tetto della sua casa, della casa dello zio. Prese a correre senza voltarsi in dietro, dopo aver accarezzato una gamba dello zio, mentre numerose frecce sibilavano incessantemente dove giaceva l’amico.

Corse, corse e ancora corse. Non si ricordava per quanto continuò a correre quando giunse.

I grandi alberi lo circondavano con i loro immensi fusti, delle vere e proprie torri di sostegno per la città sospesa. L’aria era frizzante, le lacrime gli si gelavano sotto il mento formando un sottile strato di bianco ghiaccio. La brina gli sferzava il volto e le braccia mentre camminava fatico-samente tra la vegetazione terrestre della foresta. Alcuni rumori lo fecero gettare a terra. Di cosa aveva paura? Non doveva avere più paura di nulla, era giunto a casa e ancora provava quella sensazione. Si sentiva braccato ed aveva un sospiro affannoso mentre silenziosamente strisciava sotto un cespuglio dai rami spogli.

Udiva delle voci gracchianti parlare con uno strano dialetto. Non conosceva nessuno con quella pronuncia e, tanto meno, conosceva un elfo che parlasse con una voce così sgradevole. Alzò il viso dal duro terreno congelato per osservare gli individui che stavano camminando a pochi metri di distanza, chiacchierando aspri tra loro, ridendo e scherzando animosamente. Questi erano tre loschi figuri. Indossavano delle grezze armature di metallo e dei mantelli logori, color mattone, coprivano le spalle a due di loro. Uno, quello nel mezzo, portava un elmo. Feadrim inorridì nello scorgere le fiere rune elfiche sul bordo lucido di quell’oggetto. Non poteva fare nulla. I tre personaggi erano grandi e grossi. Erano difatti molto robusti e i due privi dell’elmo portavano, senza fatica, dei grandi spadoni di una strana lega metallica, con una tetra colorazione scura. Quello che sembrava il capo, invece, oltre a sfoggiare la protezione elfica, che a stento gli calzava sul capo, impugnava una delle spade bastarde dell’ordine dei Menelmacir. Queste spade venivano assegnate ad ogni guerriero di quell’ordine. Sia lo zio che Fùnchalias ne possedevano un esemplare, e così anche tutti gli altri guerrieri che prima stavano combattendo al pianoro del massacro. Feadrim solo non ne possedeva una, ma lui non faceva parte di quell’ordine. Lui utilizzava la spada che lo zio gli aveva forgiato per il compleanno della sua maturità, il cento decimo.

Cosa fossero i tre individui il giovane elfo non riusciva a capirlo, non erano elfi, sicuramente. Non erano nemmeno umani, e neanche un umanoide appartenente alle razze, sviluppate, del continente. Non ne aveva mai visti di simili. Uno di loro aveva delle orecchie enormi, sfregiate in più punti da tremendi tagli. Aveva dei piccoli occhi blu, quasi luminescenti nell’oscurità del grande bosco e i suoi denti, grossi e appuntiti, gli uscivano dalle labbra chiuse, mostrando tutta la poca cura che aveva mostrato per loro il possessore, durante tutta la vita passata. I tre conti-nuavano a ridere mentre, lentamente, deviavano verso il centro di Caras Galadon, lasciando il giovane elfo sotto il suo fortunoso riparo. Il ragazzo, dopo alcuni attimi di lucida riflessione, decise di levarsi da sotto il cespuglio per cercare di seguire i tre sconosciuti. Cosa stava accadendo? Continuava a chiederselo incessantemente ma non poteva, non riusciva a rispondere a quella domanda che lo assillava. Si acquattò silenziosamente sul duro terreno e cominciò a levarsi le parti più ingombranti delle sue protezioni metalliche. Aveva deciso che sarebbe stato meglio rischiare delle ferite più profonde, piuttosto di essere udito dai tre figuri che stava per seguire.

Tolse il mantello e vi avvolse le piastre metalliche degli arti e del torso, facendo il minor rumore possibile. Continuava ad osservare i dintorni e sembrava non esservi nessuno.

Ad un tratto scivolò rapido e silenzioso tra le ombre dei grandi tronchi, di cui non si scorgevano le alte fronde, che li sovrastavano a cinquanta metri d’altezza. I tre che seguiva lasciavano delle tracce molto evidenti e anche un bambino umano sarebbe riuscito a seguirle. Non fu difficile ritrovarli lungo un sentiero che imboccava una salita dirigendosi verso la città. Fu su quella salita che vide i tre soldati, almeno questo gli erano sembrati, mentre parlavano con un'altra persona, completamente avvolta da un’armatura nera, pesantemente forgiata nel metallo degli spadoni degli altri due. Questo aveva una taglia inferiore ai tre combattenti ma era spaventosa-mente più pericoloso, almeno visto da quella distanza. Il ragazzo elfo giaceva dietro un tronco, coperto da una roccia umida e osservava la scena da alcune decine di metri di distanza. La figura con l’armatura nera rise fragorosamente ad una frase della creatura con l’elmo elfico. Dopo alcuni attimi la situazione cambiò.

Il nuovo arrivato s’irrigidì di colpo, come se fosse stato offeso da qualcosa che disse uno dei guerrieri con gli spadoni. I tre umanoidi ridevano mentre l’altro restò, per alcuni attimi, completamente immobile. Poi, evidentemente sopraffatto dalla rabbia, diresse un tremendo pugno sul volto del più grosso. Questo cadde a terra, lievemente stordito, mentre gli altri due e l’uomo sguainavano le armi. La persona in armatura nera impugnava una pesante spada, molto lucida e ben forgiata. Feadrim non la riconobbe ma gli sembrava di averla già vista. Non udiva i discorsi ma una rissa si era accesa tra i tre che ancora potevano agire. I due umanoidi si allargarono, per cercare di circondare l’avversario che, solo come era, non poté fare altro che attaccare prima che vi riuscissero. L’urlo fu agghiacciante. La pelle d’oca pervase il ragazzo elfo, causata da un brivido che gli saliva lungo la schiena. Il guerriero nero, nel frattempo, si gettò su uno degli umanoidi, con una furia assassina mai vista. Il difensore cercò di frapporre lo spadone all’attacco dell’altro ma, al terrificante tocco della lucente spada bastarda, la lama nera si frantumò, volando in mille pezzi. La forza dell’attaccante poi, spinse l’umanoide con le ginocchia a terra e, prima che anche l’altro potesse reagire, questo sollevava nuovamente l’arma per tagliare di netto il capo appena sopra la base del grosso collo peloso. L’altro umanoide vacillò terrorizzato mentre il compagno senza testa cadeva, contorcendosi ancora, sul freddo terreno del bosco. Poi, raccogliendo un poco di coraggio, cercò di compiere quella che, agli occhi di Feadrim, parve una carica, anche se incerta e lenta. L’umanoide vacillò, inciampando in una grande radice e la caduta venne impedita proprio dalla persona che aveva intenzione di attaccare. Guardò terrorizzato la figura nera mentre lasciava, senza speranze, la presa sull’elsa della spada dei Menelmacir. La figura in armatura rideva rumorosamente e la sua voce rimbombava dalle cavità del pesante elmo che lo proteggeva. Con un rapido gesto prese l’immonda creatura che gli gemeva di fronte, dai luridi capelli, sollevandolo da terra con il solo braccio sinistro. Che forza sovrumana! Pensò Feadrim mentre cercava di non distogliere lo sguardo per la crudezza della scena. L’umanoide si contorceva per sottrarsi alla possente presa dell’avversario; inutilmente. Questo continuava a ridere e, sollevando ancora la preda che aveva tra le mani, trasse in dietro il braccio che impugnava la spada, caricando il colpo fatale. Con un rapido gesto conficcò la lama nel volto dell’umanoide, penetrandovi con metà mano. Poi lasciò scivolare il cadavere sul terreno, voltandosi per osservare cosa accadeva attorno.

Rimaneva solo il primo avversario che aveva stordito, che cominciava a dare segni di ripresa anche se restava inginocchiato a terra con gli occhi sbarrati, non scorgendo, però, quello che nel frattempo accadeva ai compagni. La figura rise mentre sollevava la lama sopra la testa e si dirigeva a porre termine alla vita dell’ultimo, misero, umanoide. Questo giaceva immobile mentre, con un gesto saettante, la figura gli piantava un colpo di taglio al centro della testa, squarciando il corpo nerboruto del bersaglio fino all’altezza dello stomaco. La vittima cadde a terra rovinosamente, avvolto da numerosi zampilli di sangue. Del suo sangue nero, che sporcò anche l’attaccante.

Feadrim inorridì per la morte che i tre subirono, anche se si compiaceva di quello che aveva fatto. Non sapeva chi fosse la persona dalla nera armatura ma, chiunque fosse, aveva eliminato dei potenziali nemici.

Ad un tratto si gelò il sangue nelle vene di Feadrim. La figura nera aveva sollevato la spada, sporca del sangue delle vittime, sopra la testa e l’agitava con tremenda rabbia, sbraitando qualche cosa in una strana lingua. Una voce tonante, simile a quella di pochi nani, riecheggiò tra i fusti della foresta e il giovane elfo restò boccheggiante per alcuni attimi nel riconoscere la spada che possedeva. La lama era sporca, ricoperta di sangue nero, ma l’elsa era senza dubbio di fattura elfica. Era la spada dell’amico, di Fùnchalias!

Il ragazzo venne pervaso da una tremenda rabbia mentre la figura sembrava danzare in preda ad un folle delirio omicida. Feadrim fece per alzarsi ma una fredda e rapida voce lo fermò di botto “Non muovere un muscolo Fea!” disse la voce, proveniente da dietro un albero delle vicinanze. La pianta si trovava rialzata rispetto al luogo dove Feadrim giaceva, e dietro questa vi erano vari cespugli avvolti da un sottile strato di brina scintillante.

La figura era nascosta tra le ombre dei cespugli ma l’elfo aveva già riconosciuto la dura voce della sua cara amica, Maéledra. L’elfo stette fermo ad osservare i cespugli quando, ad un tratto, un raggio di sole illuminò la zona da cui proveniva la voce femminile. Dietro il cespuglio vi era una ragazza elfica, molto bella nella sua nudità selvaggia, che impugnava un grande stocco elfico ed uno scudo rotondo di legno. Maéledra indossava una cintola, con della pelle di giaguaro che le copriva la zona bassa ma, per quanto riguardava il busto, era completamente scoperto, anche se era ricoperta da uno strato di scuro fango, su tutte le parti scoperte. La ragazza si pose l’indice sulle labbra e osservò l’amico. In quel momento, Feadrim, poté scorgere interamente il volto della ragazza.

L’occhio sinistro stava grondando sangue ed era chiuso da una brutta ferita. La ragazza sembrava non tenerne conto ma la ferita era molto più grave di quella che martoriava il sopraciglio di Feadrim. Dal luogo in cui era non riusciva a capire se la ferita fosse presente anche sull’occhio ma cercò di non pensarci, anche se un’espressione inorridita e preoccupata lo aveva pervaso per un istante. La ragazza sorrise, toccandosi il volto con la mano destra. “Non preoccuparti” disse bisbigliando “sembra più grave di quello che è. È solo un graffio”

Stranamente la ragazza non sembrava convincente, tradendo un fremito nella voce. Il ragazzo si volse nuovamente all’oscuro guerriero. Questo, mozzate le mani delle braccia destre delle sue vittime, si stava dirigendo verso il centro della città di Caras Galadon. Scomparve in poco tempo oltre la ripida salita del terreno.

Feadrim si abbandonò per un attimo dalla tensione, accasciandosi lentamente al ruvido ter-reno del suo giaciglio temporaneo. Stava per addormentarsi già dopo qualche secondo, distrutto com’era dalla situazione che lo stava provando, quando dei soffici passi gli si avvicinarono. Con uno scatto mise mano al manico della spada, dimentico di quello che era accaduto, come se si risvegliasse da un incubo e si sentisse minacciato. La mano fu subito allontanata dall’arma quando si ricordò dell’amica. Maéledra era da sempre stata una compagna leale e fedele durante il corso dei loro corti secoli di vita. Aveva dodici anni in meno del ragazzo, avendone compiuti cento dieci solo qualche mese prima. La ragazza si accovacciò al fianco dell’amico. Feadrim poté scorgere l’occhio della ragazza. Era stato provocato un profondo squarcio che le andava dal sopraciglio sinistro fino al lato della bocca, colpendo tremendamente anche l’occhio, che probabilmente era stato parzialmente asportato. Sembrava che la ragazza avesse pianto in precedenza, avendo il viso solcato dalle lacrime, sul lato non ricoperto dal sangue.

“Sch” disse amichevolmente la ragazza scostando i capelli imbrattati di sangue che coprivano parte del volto dell’amico. “Tranquillo, se ne è andato” disse poi accarezzandogli la guancia. Lui rabbrividì alla vista della tremenda ferita che attraversava il volto della ragazza. Non riusciva a fare a meno di fissare l’occhio. Lei se ne accorse ed una lacrima fugace scese dall’occhio ancora sano. Poi sorrise, in un’espressione che agli occhi del ragazzo parve di più un ghigno di dolore. “Non preoccuparti Fea, so chi può curarmi, e c’è chi curerà anche le tue ferite.” Maéledra, dicendo questo, poggiò una mano affusolata sul fianco del ragazzo. Questo fremette, colto improvvisamen-te dal dolore. “Calmo, te la tolgo”

Di cosa stava parlando la ragazza? Feadrim non capiva, provava solo un dolore bruciante dietro ad una coscia ma non sapeva per quale motivo. La ragazza strinse i denti per tirare con forza e, tappando la bocca dell’amico, strappò con velocità felina, un corto mozzicone di freccia dall’arto del compagno. Cosa sta accadendo?voleva chiedere all’amica, assieme ad altre domande, ma questa, con un movimento forte, prese l’amico sotto una spalla e lo aiutò ad alzarsi. Feadrim, sul momento, si fece aiutare dalla ragazza ma, ripensando all’occhio di lei insistette subito per essere lasciato stare. Disse che poteva farcela da solo e che, anzi, era lei ad avere bisogno d’aiuto. La ragazza sorrise e, poi, si poggiò pesantemente ad una spalla dell’amico, che fu fiero nello sforzo tremendo che dovette compiere per sorreggerla.

“Cosa sta succedendo?” gli chiese la ragazza mentre indicava un luogo, probabilmente la direzione dove dovevano incamminarsi.

Feadrim rimase sconcertato dalla domanda, sperava che qualcuno potesse dargli una risposta ed invece anche lì non sapevano nulla. Non perse comunque la speranza, rispondendo di non sapere continuava a confidare nel fatto che dove stavano andando potessero rispondergli.

Il ragazzo non riusciva a camminare correttamente, zoppicando con la gamba ferita e con il peso della giovane ragazza sulla spalla opposta. Avanzavano comunque verso un luogo che Feadrim non conosceva bene. Non era mai stato permesso a lui e ai suoi amici di incamminarsi per quel tratto di bosco e ora, stremato e sanguinante, si dirigeva assieme alla sua amica sfigurata, verso un luogo proibito che lei sembrava conoscere alla perfezione. Avvisava l’amico di ogni asperità del terreno, facendogli compiere la via più semplice.

Più volte, però, caddero a terra bocconi e, ad ogni caduta, ci volevano sempre più tempo e sforzi per riportarsi in piedi. Erano stremati e le forze li stavano abbandonando. Lei aveva lasciato cadere lo scudo ingombrante ma il grosso stocco di metallo lo aveva riposto nella cintola, al fianco destro. Feadrim era spoglio dell’armatura ed ora indossava solo l’imbottitura che serviva ad attu-tire i colpi che venivano bloccati dalle piastre metalliche. La spada giaceva nel fodero di cuoio assi-curato alla cintura pesante, sul fianco sinistro.

Lentamente, lottando contro le tremende ferite, i due giunsero ad un luogo che il ragazzo non aveva mai esplorato, ma che la ragazza riconosceva come familiare. Si gettarono affannosamente su delle pareti di roccia completamente avvolte da un soffice ed umido strato di muschio. Le pareti rocciose erano alte qualche metro e continuavano, dopo il passaggio di un tronco antico e marci-scente che ostruiva il cammino. Oltre il tronco, dopo aver strisciato sotto numerosi rami secchi, sarebbero giunti a quella che sembrava l’imboccatura di una piccola caverna. L’aria fredda e umida stava però devastando le ossa dei due amici e la ragazza era continuamente assalita da tremendi brividi di freddo. Feadrim fece per abbracciarla, in modo da scaldare le sue membra tremanti, ma lei si ritrasse dal suo tocco, indicando con occhi sbarrati il passaggio sotto il tronco.

Maéledra continuava a tremare mentre si accasciava sul fango che permeava sul terreno. Quella zona era molto umida e dei grandi sciami di zanzare stavano assalendo la pelle scoperta dei due. Con fretta stravolgente la ragazza strisciò sotto il legname marcio fino ad arrivare nella cavità della pietra, dove si rannicchiò infreddolita. Feadrim la seguì, ma i suoi sforzi furono più evidenti. Continuava ad impigliarsi nei rami che lo sovrastavano mentre cercava di tirare il viso fuori dal putrido fango che lo circondava. Infine giunse anche lui, ricoperto dal fango, affianco alla ragazza. Solo in quell’istante si accorse che il fango che copriva il corpo della ragazza in precedenza, era lo stesso in cui avevano strisciato qualche attimo prima. L’elfa proveniva da quel luogo, senza ombra di dubbio. Ma dove si trovavano?

La ragazza strinse il polso dell’amico, accompagnandolo poi lungo l’apertura che attraversava la roccia. Questa, addentrata nella parete di qualche metro, si allargava, consentendo un facile tragitto alle persone che l’avrebbero attraversata. Per loro non fu affatto semplice, distrutti come erano dalle ferite e dal dolore. La vista del ragazzo cominciava a calare, offuscata da una densa nebbia che gli opprimeva anche la mente finché le sue gambe continuavano senza volontà a strisciare lungo il pavimento che lentamente li portava verso il basso. Forse era solo una sensazione, dovuta alla fatica. La compagna, anche se privata dell’occhio sinistro, sembrava ancora spigliata nei movimenti, ma si poteva intuire dall’espressione del viso, che era segnata dal terrore e dal dolore.

Lamentandosi, entrambi, per le ferite e per la stanchezza giunsero, barcollanti e frastornati, ad uno sbocco della grotta che era stranamente pervaso da una luce brillante. Feadrim socchiuse le palpebre, coprendosi gli occhi con una mano guantata. Quella luce gli stava trapanando il cervello ma, lentamente, cominciò ad abituarsi.

La stanza che lo attendeva era circolare, molto grande e vi erano parecchie torce, composte solo da una fiammella brillante, che giacevano sospese per aria sui lati delle pareti.

Uno spettacolo incredibile si presentò alla vista stremata del ragazzo. Degli anziani stavano seduti di fronte ad un grande monolite di quarzo rosa ed una dama elfica si stava alzando in piedi, forse per accoglierli quando, ad un tratto, si sentì abbandonare. La vista lo lasciò ceco e si sentì pesante. Tremendamente pesante. Poi, più nulla.

 

Capitolo II