Racconti Fantasy

L'Armata dei Martelli

 

Il suono del corno di Tragga annunciò agli schiavi la fine della giornata di massacrante lavoro alla cava. Tremila formiche dalle schiene curve si diressero meccanicamente alle baracche sgangherate ch'erano i loro alloggi, le facce sporche illuminate dal rosso disco infuocato che tramontava ad ovest, rattristato per la sorte dei vecchi uomini. Aveva visto tanto dolore, quel sole, eppure mai avrebbe immaginato che una cosa del genere sarebbe potuta accadere; la razza umana ridotta a bestiame da lavoro, i pochi ancora liberi costretti a vivere come ombre, perennemente braccati da una sorte che potevano soltanto sperare di eludere per il maggior lasso di tempo possibile. Piangeva il sole, piangeva per i corpi dei malati e dei vecchi, accatastati come legna marcia contro pareti rocciose o ammassati in enormi fosse comuni; non potevano lavorare, di conseguenza gl'invasori li ritenevano inutili bocche da sfamare, e se ne disfacevano senza alcuna esitazione. La sorte riservata ai bambini non era migliore: solo a pochi d'essi era concesso di superare la fanciullezza per divenire schiavi al pari dei loro genitori, poichè la maggior parte era usata per nutrire le orribili belve che i Nuovi Uomini cavalcavano in battaglia, sorta d'orsi dallo sguardo terribilmente intelligente e dai tratti del volto schifosamente umanoidi. Gelava il sangue nelle vene udire a notte fonda i latrati di quelle cose abominevoli, ma peggio era vederle in pieno giorno aggirarsi tra gli schiavi, con le enormi bocche eternamente sudicie del sangue degli innocenti di cui si cibavano ed uno sguardo lascivo dipinto sulle facce grottesche. Darlien odiava quei mostri forse ancor più dei loro padroni, ma probabilmente soltanto perchè doveva viverci a più stretto contatto. Ricordava sin troppo nitidamente cos'era accaduto alcune settimane dopo il suo arrivo alla cava, quando una di quelle oscenità lo aveva inseguito fino a spingerlo con le spalle alle rocce, senza via di fuga. Rimembrava lo sguardo bramoso, la lingua lunga e sottile che saettava viscida, il corpo peloso fremente per l'eccitazione che precedeva il pasto. Aveva raccomandato l'anima a tutti gli dèi dei vecchi uomini che conosceva, e che da tempo non pregava più: Osmos, il dispensatore di coraggio, Dithenor e Falgir, protettori dei derelitti, e poi altri ed altri ancora, in attesa che una zampa artigliata calasse sul suo petto per strapparlo a quell'incubo ch'era la sua vita. Ma così non era stato, perchè Tragga era giunto, ed aveva battuto la bestia con la sua frusta rossa, lunga come la coda d'un giovane drago ed altrettanto letale. Un vecchio uomo sarebbe stato tranciato in due di netto da un colpo come quello, ma l'animale s'era limitato ad un disgustoso latrato gorgogliante ed era fuggito via con tutta la velocità di cui era capace. Darlien aveva odiato sè stesso nel momento in cui aveva dovuto inginocchiarsi dinanzi a Tragga per ringraziarlo d'avergli salvato la vita; era stato come inghiottire sterco di bue fingendo che si trattasse di pregiatissimo caviale, come ricevere un pugno allo stomaco sforzandosi di sorridere. Tragga era andato via soddisfatto, trascinando la frusta smisurata come un serpente appena ucciso dopo una lunga caccia. Darlien sapeva perchè lo aveva salvato, e lo odiava per questo. Non era stato un gesto caritatevole quello del Nuovo Uomo, ma un comportamento dettato dalla pura convenienza, dal più inumano pragmatismo di cui quella razza sembrava impregnata fin nel midollo. Uno schiavo in meno avrebbe significato meno velocità negli scavi, nient'altro, e pareva proprio che Tragga ed i suoi tenessero molto a raggiungere il proprio obbiettivo nel minor tempo possibile, anche a costo di proteggere l'insignificante vita di un vecchio uomo.

Gens lo aspettava sulla soglia della baracca, illuminato dalla fioca luce che proveniva dall'interno della sbilenca abitazione. La luna era già alta nel cielo, ma la luce diurna non era ancora del tutto stata sopraffatta dalle tenebre, e tutte le cose parevano sfumare i propri contorni nella penombra che segnava la fine del giorno.

<< A cosa pensi, ragazzo? >> la voce di Gens lo riportò indietro da un sogno ad occhi aperti in cui egli uccideva Tragga e liberava gli schiavi della cava, i quali osannavano il suo nome come quello d'una divinità. Che sciocchezza. I Nuovi Uomini non potevano essere uccisi da una nullità come lui, probabilmente non potevano essere uccisi da niente e da nessuno. Mai ne aveva veduto uno ferito o malato, od anche soltanto in difficoltà, da quando essi erano stati vomitati dalla Montagna del Miasma sulle terre dei vecchi uomini, più di dieci anni orsono. Erano forse semidèi, giunti per dare nuovo corso ad un mondo martoriato da guerre e crudeltà d'ogni genere? Oppure erano demoni, fuoriusciti dagl'inferi per conquistare la luce del giorno da millenni loro preclusa? Sterili congetture di questa fattura occupavano spesso la mente di Darlien durante le ore di riposo, ma stavolta egli decise che non avrebbe seguito il corso tortuoso e senza scampo dei propri pensieri.

<< Allora, entri oppure no? >> gridò Gens. Gens non era come lui, Gens viveva giorno per giorno.

<< Arrivo. >> La porta della catapecchia si chiuse alle sue spalle, ed egli si sistemò sul pavimento assieme alle altre formiche.  

 

 

Alla luce della luna piena il cadavere del cane avrebbe potuto esser scambiato per un mucchio di stracci o per un sacco semivuoto abbandonato sul terreno erboso. L'odore non era gradevole, ma il giovane uomo di Arenai sapeva bene che i suoi inseguitori non sarebbero andati troppo per il sottile: per loro un cane morto costituiva un pasto più che decente. Sedette con la schiena appoggiata al tronco d'un albero, stringendo nelle mani il forcone arruginito ch'era la sua arma. Da quella posizione avrebbe potuto scorgere con largo anticipo l'arrivo di coloro che stava attendendo, e prepararsi ad agire di conseguenza. Dietro di lui il limitare d'un boschetto che pareva ospitare tutti gli uccelli e insetti notturni del mondo, a giudicare dal fracasso che ne proveniva;dinanzi, l'estesa pianura che aveva appena percorso, costantemente braccato dagli uomini che adesso s'era risoluto ad affrontare una volta per tutte. S'era imbattuto nel cane vecchio e malato quella mattina, e dopo aver constatato che gl'inseguitori dovevano essersi concessi una pausa, aveva messo fine alle sofferenze dell'animale con un singolo affondo del forcone. Poi aveva lasciato il corpo lì, a pochi passi dall'albero contro cui sedeva adesso, attendendo il momento del confronto.

Giunsero quando l'alba s'approssimava a disperdere le tenebre della notte, claudicanti come morti viventi, quattro scheletri dagli abiti consunti e dai volti crudelmente segnati da fame e malattie. Uomini-avvoltoio, disperati che si cibavano di cadaveri, troppo deboli o inetti per procurarsi il cibo in altro modo, troppo vigliacchi per scegliere il suicidio come atto ultimo d'un'esistenza ormai becera e inutile. Il giovane uomo li guardò avvicinarsi senza accennare un solo movimento; anche lui era stato veduto, e lo sapeva. Impiegarono un tempo assurdamente lungo per raggiungere il cadavere del cane. Uno d'essi, un vecchio che pareva dover cadere in pezzi da un istante all'altro, s'avventò sull'animale morto, spolpandolo con denti di fiera aguzzi come pugnali. Il giovane uomo represse un brivido; mai aveva veduto zanne di lupo nella bocca d'un essere umano. Si sforzò di fissare gli altri tre apparendo determinato, ma capì ben presto che la farsa non avrebbe retto. Quegli infelici erano oramai più bestie che uomini, animali guidati soltanto da un cieco istinto di sopravvivenza che aveva talmente preso il sopravvento sulle loro leggi morali da spingerli al cannibalismo e chissà a quali altre indicibili pratiche. Mentre il silenzio, soltanto disturbato dagli schiocchi delle mandibole del vecchio, avviluppava i protagonisti di quella penosa scena, il giovane d'Arenai si mise in piedi, badando bene di non compiere gesti che mettessero in allarme i suoi avversari. Uno d'essi rivelava un passato da combattente, giacchè la sua pelle scura era segnata da molteplici cicatrici. La più grande di queste gli attraversava interamente il torace che un tempo doveva esser stato ampio e muscoloso, ma che adesso era scarno e gracile come quello dei suoi compagni. Gli altri due avevano la pelle bianca come quella dei morti, ma uno d'essi sorprendentemente lasciava trasparire, nello sguardo pur scavato e animalesco e nei tratti del viso pur deturpato dal digiuno, origini nobiliari assolutamente marcate e riconoscibili. Al giovane uomo tornò alla memoria una scena della propria fanciullezza: in piedi su di uno sgabello, spolverava un gran quadro raffigurante un uomo di mezz'età sorridente e dallo sguardo deciso ma buono. Ebbene, era sicuro che quell'uomo nella cornice assomigliasse molto più che vagamente all'avvoltoio che aveva di fronte, anche se naturalmente la sua memoria poteva ingannarlo.

<< Và via. >> fu proprio il disperato dalle fattezze signorili a parlare. La sua voce era fredda come ghiaccio, e il suo sguardo lasciava intendere che nè lui nè i suoi compagni si sarebbero lasciati intimorire dalle punte d'un forcone male in arnese. Il giovane uomo non rispose. Rimase dov'era, con le palme delle mani che iniziavano a sudargli. Temette che quell'inconveniente potesse costargli caro nello scontro che di lì a poco sarebbe seguito, ma non poteva certo posare il forcone ed asciugarsi le mani oramai madide. S'aspettava una reiterazione dell'ordine di lasciare il campo da parte di uno dei tre avvoltoi, invece quello dalla pelle scura passò a vie di fatto, balzandogli alla gola come una belva inferocita. Mani adunche e nodose gli si avvinghiarono al collo come ragni, ma la stretta durò ben poco. Le punte arruginite si fecero largo con inverosimile facilità nel misero ventre del nemico, che stramazzò al suolo vomitando sangue. Tutto avvenne nel più completo e crudele silenzio. Gli altri due tentarono pateticamente di circondarlo, ma era chiaro che nelle condizioni in cui versavano non sarebbero riusciti ad avere ragione neanche d'un ragazzino. Di fronte a lui si parò l'uomo dal nobile sguardo, mentre l'altro azzardava un attacco alle spalle talmente lento da suscitare nel giovane un ghigno sardonico. Rimase piantato sui piedi in modo da dare all'avversario l'illusione del successo, poi schivò il suo attacco con uno scarto improvviso e lasciò che il manico del forcone s'abbattesse sul ginocchio ossuto del malcapitato. L'urlo dell'avvoltoio squarciò l'irreale silenzio nel quale era finora avvenuto lo scontro, ma ne segnò anche la fine, poichè l'altro non pareva intenzionato a continuare. Proprio in quel momento il vecchio dai denti a sciabola sollevò la testa dal disgustoso banchetto che lo aveva tenuto lontano dalla lotta, ed appena realizzò ciò che doveva esser accaduto si lanciò con un ringhio all'indirizzo del giovane uomo, il quale d'istinto protese in avanti il tridente arruginito. Era sicuro di abbattere quell'attempato scherzo della natura al primo colpo, ma aveva fatto male i suoi conti. La dentatura formidabile del vecchio spezzò una dopo l'altra le punte di ferro, ed il giovane d'Arenai si ritrovò suo malgrado ad impugnare soltanto un bastone tarlato, ben meno pericoloso dell'arma che aveva utilizzato sino a poco prima. Indietreggiò velocemente, attendendo la prossima mossa del nemico. Era quasi ridicolo che rischiasse di venire ucciso dal peggio in arnese di quella banda di rifiuti umani, ed avrebbe di nuovo sorriso di sè stesso, se la situazione non fosse stata così pericolosa. Il vecchio si preparò ad un altro assalto, ma mentre stava per lanciarsi contro il giovane, le zanne inumane già digrignate e pronte colpire, venne fermato da un gesto del suo compagno dalle signorili fattezze. Era chiaro a quel punto che quel figuro era il capo della banda di disperati. Meno chiaro era perchè avesse proibito al vecchio di far fuori chi aveva eliminato uno di loro. Passò del tempo prima che qualcosa si muovesse, a parte le mosche intorno ai poveri resti del cane e dell'uomo-avvoltoio infilzato, poi il giovane d'Arenai gettò a terra ciò che restava del forcone e tentò la strada delle parole.

<< Mi dispiace per lui. >> disse, indicando con gli occhi il cadavere poco distante. Se avessero deciso di attaccarlo ora non avrebbe avuto possibilità di cavarsela. Forse una precipitosa fuga avrebbe potuto salvargli la vita, ma un'idea folle lo tratteneva là, ed egli capì che quell'idea era nata nella sua mente dal primo istante in cui aveva avvistato gli uomini che adesso si trovava a fronteggiare..

<< Non avrei voluto che andasse in questo modo. >> dal momento che i tre non rispondevano, continuò, cercando di scusarsi senza risultare impaurito. Il suo timore avrebbe riacceso gl'istinti da predatori di quella gente come l'odore del sangue d'un cervo avrebbe moltiplicato le forze di un puma o di un orso. Il loro mutismo, tuttavia, lo preoccupava. Parlò ancora, giacchè non poteva fare altro e non voleva fuggire:

<< Voglio offrirvi una possibilità. >> disse mentre la lingua gli s'impastava. Era a corto di saliva e di fiato, ma gioì dentro di sè quando vide dipinta sul volto dei tre un'espressione di pura curiosità.

<< Di cosa diavolo parli? >> chiese dopo un attimo il capo. Il ragazzo d'Arenai notò che le sue guance terree s'erano leggermente imporporate, sino a dare al volto scheletrico un colorito quasi normale.

<< Parlo di riprendervi la vostra dignità di uomini. Parlo di smettere di mangiare cadaveri e radici, di tornare a dormire sotto un tetto invece che in qualche squallida buca melmosa. Sappiamo tutti chi è stato a fare di voi bestie e di me un orfano vagabondo, senza speranze nè futuro. Ebbene, se mi seguirete tenteremo di riprenderci ciò che i Nuovi ci hanno tolto, proveremo... >>

<< Sei un pazzo furioso! >> berciò l'uomo a cui il giovane aveva fracassato un ginocchio. Gli altri due approvarono con mugugnii d'assenso.

<< Finirai ucciso, ragazzo. >> sentenziò il capo dai nobili lineamenti, ma nei suoi occhi il giovane uomo credette di scorgere uno spiraglio di disponibilità, forse la fiammella d'un orgoglio perduto che ancora bruciava sotto tonnellate di cenere. Se quella piccola scintilla veniva alimentata, pensò il ragazzo, poteva brillare di nuovo maestosa, ed egli allora avrebbe acquisito tre compagni, poichè era chiaro che il vecchio e l'altro uomo avrebbero seguito il capo.

<< Ucciso >> rise quasi sarcastico il ragazzo d'Arenai << e allora? Tenete davvero tanto alla vita che conducete, da preferire quest'esistenza miserevole alla possibilità seppur remota di tornare ad essere uomini? Non vi stò dicendo che ce la faremo, ma ciò che posso offrirvi è più di quanto possiate mai sperare d'ottenere in altri trecento anni di vita da avvoltoi. Fossi in voi ci rifletterei. >>

Era fatta. La fiamma che ardeva nel petto del capo di quei poveracci sfavillò, violenta come la furia di un drago delle montagne. Nulla l'avrebbe mai più soffocata, perchè ciò che non muore ritorna cento volte più forte di prima, e lo stelo che la palude non avvelena diviene un albero che torreggia nelle acque malsane, immune ai loro miasmi.

<< Ammesso che noi ti seguiamo, cosa hai intenzione di fare? >>

<< C'è una cava, ad est. Andremo là. >>

<< E dopo? >>

<< Ne uccideremo uno, o magari tutti. La gente capirà che non sono dèi ed inizierà a ribellarsi al loro dominio. >>

<< Impossibile ucciderli! >> strillò l'uomo con la rotula spaccata. Il vecchio dai denti a sciabola si grattò il cranio con espressione idiota e assentì.

<< Ci hai mai provato? >> fu lo stesso capo a rispondergli, con occhi iniettati d'un sangue che pareva solo adesso tornato a circolare nelle vene di quel corpo tutt'ossa. Il vile avvoltoio mangiatore di carogne era morto per sempre, lasciando che il nobile animo di cui quell'uomo era dotato si riappropriasse del ruolo che gli spettava. Non vi furono obiezioni, nè repliche. Avrebbero ucciso i Nuovi Uomini della cava o sarebbero periti nel tentativo, ed in quel momento quello era tutto il loro futuro.

 

Mirkon Solifald sollevò la lanterna al di sopra del suo capo, illuminando il gigantesco volto di Bogoss. Con delusione riabbassò l'unica fonte di luce su cui potesse contare in quel regno di tenebre indissolubili; il gigante di pietra dormiva ancora. Il vecchio tornò allora con mortale lentezza a sedere sul blocco di roccia fredda che era il suo sgabello, poggiando cautamente la lanterna sul masso che usava come tavolo. Quella piccola luce era eterna, pensò ghignando. Come Bogoss. Come lui. Voltò poi il capo verso la parete rocciosa. Al di là di quella barriera uomini ridotti in schiavitù scavavano dodici ore al giorno per permettere a Nuovi conquistatori di raggiungere ed annientare l'unica cosa al mondo che quella razza fiera e crudele temesse. Quella cosa era Bogoss, che dormiva da ottanta secoli sotto la montagna e che avrebbe potuto schiacciarli come scarafaggi, se solo si fosse destato. La mano pallida di Mirkon carezzò stancamente uno dei piedi di pietra, alto come una abitazione di due piani. La luce della lanterna disegnò strane ombre che l'uomo osservò rapito per qualche tempo, ripercorrendo in pochi attimi mille e mille anni di vita, trascorsi a vegliare le spoglie inerti d'un silente compagno. Rimembrava bene Mirkon quel giorno d'ottomila anni orsono, quando l'aria era divenuta zolfo e le acque avevano ribollito come lava ardente, mentre nel cielo comparivano gli dèi vestiti di luce sulla schiena del gigante di pietra. Aveva toccato terra provocando un immane terremoto, poi gli dèi erano scesi tra gli uomini ed avevano parlato con voce dolcissima, annunciando loro l'inizio di una nuova era di prosperità e benessere. Non avevano mentito. Per tre decenni uomini e divinità avevano vissuto in armonìa perfetta, proteggendosi vicendevolmente e beneficiando d'una quanto mai inconsueta e reciprocamente vantaggiosa convivenza. Ma era durata poco, come ogni cosa talmente bella da suscitare l'invidia e l'odio di chi non è ammesso a goderne. Così, ricordava Mirkon, erano giunte dalla pioggia altre creature, bieche e spietate, che in una guerra durata un giorno soltanto avevano spodestato le entità vestite di luce, ricacciandole da dov'erano arrivate. Il destino di Mirkon s'era compiuto in quelle ore tragiche e concitate, mentre a migliaia morivano i suoi simili nel vano tentativo d'aiutare gli dèi giusti ad avere la meglio sugli usurpatori. Sulia, la madre dei profumi delicati e delle giornate di sole, era giaciuta riversa al suolo nel Palazzo delle Perle, trafitta orribilmente da armi che un piccolo uomo nemmeno poteva immaginare. Aveva cercato d'aiutarla, Mirkon, ma ella gli aveva preso le mani nelle sue, parlandogli di ciò che sarebbe stato e della missione che lo attendeva. Gli dèi vestiti di luce sarebbero un giorno tornati sulla terra degli uomini per regnarvi ancora, ma adesso dovevano fuggire. Essi non morivano nè invecchiavano, poichè la luce di cui erano fatti era eterna, come tutte le cose del mondo da cui venivano, dai grandi alberi azzurri alle piccole farfalle trasparenti che solcavano i cieli a migliaia nella stagione dei sei soli. Ma Bogoss, aveva detto Sulia, non era come gli dèi di luce, poichè poteva essere distrutto senza la loro protezione. Il gigante di pietra che li aveva condotti dalla razza degli uomini dormiva nel cuore d'una montagna inaccessibile, protetto contro la crudeltà degli dèi venuti dalla pioggia, che mai l'avrebbero trovato. Bisognava, tuttavia, che qualcuno vigilasse sul sonno del titano di roccia, poichè era probabile che, se destato da qualche cosa, avrebbe potuto agire violentemente contro gli amati abitanti della terra. La dèa aveva consegnato in tutta fretta a Mirkon una pergamena sopra la quale era vergata una formula da recitare per placare la furia di Bogoss, poi aveva poggiato un singolo, bianchissimo dito sul petto dell'uomo, e la luce era entrata in lui, rendendolo immortale. Era stato come rinascere, una cascata d'energia che si riversava in lui più potente di qualsiasi forza esistente nel mondo degli uomini. Era stato bellissimo e commovente, ma quando era tornato in sè Sulia non c'era più. Da allora mille e mille estati roventi avevano crepato le rocce della montagna, ed altrettanti rigidi inverni le avevano coperte di neve bianca come i capelli di Sulia, ma Bogoss mai aveva dischiuso gli occhi di marmo nè mosso una mano grigia e gigantesca, ed il suo guardiano era invecchiato indicibilmente, attendendo ciò che forse non sarebbe mai più accaduto.

Come un salmone emerge dalle tumultuose acque del fiume che sta risalendo, così Mirkon tornò alla realtà dall'abisso dei propri ricordi persi in ère ancestrali, rimpiangendo il tempo in cui la vita era splendore e libertà in compagnia degli dèi luminosi.

<< Forse sono morti. >> disse a Bogoss. Gli parlava spesso, anche se il gigante non rispondeva mai, ed allora lui a volte si rispondeva da solo. Quella volta preferì non farlo. Un tonfo proveniente dall'alto l'avvertì che i poveri uomini in catene avevano ricominciato a scavare. Presto avrebbero riportato alla luce il colosso addormentato, ed allora il mondo avrebbe conosciuto di nuovo dopo ottanta secoli la furia distruttrice di Bogoss, che solo la piccola pergamena nella tasca del vecchissimo guardiano poteva placare.   

 

                                                                      II

 

<< Sono soltanto in due, vi dico >> per un istante Lych osò interrompere il proprio lavoro. Gens lo fissò come se fosse pazzo.

<< Cosa diavolo fai? Continua a scavare. Se Tragga ti vede... >>

<< Tragga non può essere ovunque. >> fu lesto a ribattere Lych, il ghigno sdentato seminascosto dalla moltitudine di capelli arruffati che ricadevano in avanti, celandogli buona parte del viso << Hai mai visto in giro altri invasori, a parte lui e Shuria? Sono soli qui alla cava, anche se vogliono farci credere d'essere in molti. Per gli dèi, gente, degnatevi d'ascoltarmi! >>

Le parole del giovane schiavo si persero nel frastuono della roccia che veniva colpita ripetutamente dai suoi compagni, sordi ad ogni discorso di ribellione, determinati a non farsi coinvolgere in nulla che potesse esporli al rischio d'incappare in una delle tremende punizioni che i Nuovi Uomini sapevano infliggere. Come golem senza spirito nè ragione sollevavano i martelli su teste dalle quali era stato strappato ogni sogno di rivalsa, e guardavano con ostilità a chi arrecava sofferenza al loro animo martoriato tentando di riesumare una speranza sepolta in fondo a un lago di sangue dalle lame dei Nuovi Uomini. Lych in quel momento voleva proprio fare quello: riportare nei cuori di quegli schiavi vigliacchi la speranza in un futuro migliore. Erano in due, alla cava. Solo in due.

Darlien guardò Gens, che picchiava sulla roccia senza tregua, come per scacciare dalla mente l'eco delle parole appena pronunciate da Lych. Non voleva, non poteva Gens, imbarcarsi in quella che era pura follia suicida senza pensare alle conseguenze. Fosse stato solo al mondo, probabilmente non avrebbe esitato, ma aveva un figlio lì alla cava, e abbandonarlo al suo destino era cosa impossibile d'accettare per lui. Imer, il ragazzo, gli si avvicinò proprio in quell'istante. Era poco più giovane di Darlien, appena abbastanza forte per sollevare il martello e colpire la roccia. I suoi sedici anni ed il fisico robusto, ereditato dal padre, avevano convinto Tragga a risparmiargli la vita, laddove la maggioranza dei suoi coetanei era stata soppressa perchè incapace di tornare utile agli scopi degl'invasori.

<< Torna a lavorare, figliolo. >> lo ammonì Gens asciugandosi la fronte imperlata di sudore. Il sole del mattino inoltrato picchiava impietoso.

<< Non tornerò a spaccare pietre, padre. >> lo sguardo del ragazzo era fisso in quello del genitore, e questi capì ch'era giunto il momento in cui si sarebbe rivelato un vigliacco od un eroe agli occhi dell'unico figlio che aveva. Molti altri uomini arrestarono i martelli, incuranti del rischio che correvano. Lych s'illuminò di speranza. Darlien sorrise, intuendo l'importanza del momento, sentendosi vivo dopo così tanto tempo.

<< So cosa provi figlio mio >> Gens quasi balbettava, incapace di trovare parole che non suonassero come le giustificazioni d'un pavido << e lo sanno anche tutti gli uomini che vedi sul versante di questo monte, sudati e doloranti, offesi e privati della loro libertà. Ma credimi, non possiamo nulla contro i Nuovi... >>

<< Solo due, Gens >> intervenne Lych, cogliendo il momento giusto << soltanto Tragga e Shuria. Mi devi credere amico. >>

Arrivarono in quell'istante alcune donne recanti sulla schiena pesanti secchi colmi d'acqua. Gli uomini bevvero con le mani l'acqua sporca, si rinfrescarono il viso e il petto, poi tornarono a spaccare la pietra come se non fossero stati interrotti nel mentre della più importante discussione che si fosse mai tenuta tra quel gruppo di formiche. Per un poco s'udì solo il picchiare del ferro sulla roccia, poi Darlien soffiò sul fuoco che stava per spegnersi, ravvivandolo quando tutti parevano intenzionati a lasciarlo estinguersi.

<< Io sono con Lych. >> disse << Devono per forza essere soltanto in due, giacchè mai da quando siamo qui ne abbiam visti altri. Sono due. Devono essere due. >>

Qualcuno annuì timidamente. Molti continuarono a martellare, cocciuti come la pietra che percuotevano. Gens scosse la testa, deciso a non farsi trascinare dall'entusiasmo di Darlien.

<< Non importa se sono due. Non si può fare e basta. Levatevelo dalle mente, scacciate questi sciocchi pensieri, questi sogni ad occhi aperti, e tornate una volta per tutte alla realtà, per gli dèi! Questa è la nostra realtà >> urlò, mostrando il martello agli altri, come per ravvedere un gruppo di stolti << Questa! >> colpì la roccia con tanta forza che frammenti schizzarono verso l'alto in ogni direzione. Credeva che la sua sfuriata avesse posto finalmente fine a quel pericoloso ciarlare, e contemporaneamente sperava d'esserne uscito in maniera dignitosa anche agli occhi di Imer. Si sbagliava di grosso, e ne fu presto consapevole.

<< Padre >> gli occhi di Imer, neri come ebano, rimasero fissi in quelli del genitore, mentre il ragazzo cercava dentro sè il coraggio delle proprie parole.

<< Sei un vigliacco! >> proruppe all'improvviso, mentre le lacrime, incandescenti di rabbia, gli rigavano il volto paffuto e stravolto dall'emozione.

Gens lo colpì di riflesso, pentendosi del proprio gesto prima ancora di vedere suo figlio ruzzolare in terra, con il naso sanguinante. Altre volte lo aveva picchiato, ma in quella particolare situazione il gesto avrebbe assunto prospettive completamente differenti. Oramai tutti gli schiavi avevano interrotto il proprio lavoro per assistere alla scena, apparentemente dimentichi del pericolo rappresentato da un improvviso e quanto mai probabile arrivo di Tragga, che di certo doveva aver udito le urla. Gens s'avvicinò al suo ragazzo, tendendogli una mano per aiutarlo a rimettersi in piedi. Imer la rifiutò.

<< Adesso >> disse, pulendosi la faccia con una manica << se vuoi dimostrare di non essere un vigliacco devi fare la stessa cosa a Tragga. >>

Un'eloquente, compiaciuta occhiata passò dagli occhi di Lych a quelli di Darlien, rimbalzò negli sguardi degli altri schiavi, si tramutò in un mormorìo sommesso che cresceva come la marea nelle notti di luna piena. Qualcuno avrebbe di certo detto qualcosa d'importante, se un colpo di tosse palesemente posticcio, un segnale convenuto, non avesse indotto tutti a tornare precipitosamente al lavoro. Tragga stava arrivando; lo videro che sopraggiungeva dal basso, tirandosi dietro la frusta smisurata che a volte pareva viva. Lo videro, e seppero che l'avrebbero ucciso.

 

<< ...così risalimmo l'irto pendìo e fummo finalmente fuori dalla Buca dei Pazzi. Sul crinale pregammo brevemente per le anime di Jader e Fluderich, i miei cugini che non ce l'avevano fatta. Ricordo d'aver guardato mio padre: aveva il braccio destro troncato all'altezza del gomito, e farneticava d'inferni senza fondo, oramai privo di ragione. Sarebbe morto prima dell'alba, mentre ancora eravamo in viaggio. Maledissi il mostro, il povero mostro umano che lo aveva ridotto in quello stato, e trovai conforto nel forte abbraccio di mio fratello Adel, affranto quanto me. Nonostante tre dolorose morti, la spedizione era stata successo. Avevamo tirato fuori nostro nonno, lord Gredios, da quell'abisso abitato da incubi, e lo stavamo riportando a palazzo. >>

Il nome del capo degli uomini-avvoltoio era Orin Fannings. Era costui il nipote del più onorevole e degno vassallo del sovrano d'Arenai, il cui nome nome era appunto lord Gredios. Il giovane di Arenai si chiamava invece Elshan, ed aveva appena avuto il privilegio di udire, direttamente dalle labbra di chi v'aveva preso parte, una delle avventure più straordinarie del suo tempo. Decine erano le ballate che i menestrelli aveano composto sulla discesa dei Fannings nella Buca dei Pazzi, innumerevoli le leggende createsi intorno al manipolo di prodi che compì l'impresa. Adesso lui, il figlio d'un povero servo, sedeva faccia a faccia con un eroe, e rimembrava con certezza che l'uomo del quadro nel palazzo d'Arenai era certamente uno dei membri della nobile casata Fannings. Il sole era oramai quasi del tutto scomparso dietro le vette di grigi e minacciosi monti, e il fresco della sera faceva presagire una notte piuttosto rigida. Non avevano coperte, nè tende sotto le quali ripararsi. Gli uomini-avvoltoio non avevano nemmeno degli abiti degni d'esser definiti tali.

<< Cosa fu della tua famiglia, quando giunsero i Nuovi? >> chiese Elshan, realmente curioso di sapere se la disfatta d'una stirpe di sangue nobiliare poteva assomigliare a quella di una comune famiglia di sguatteri. Orin parve rabbuiarsi, mentre scavava nella memoria disseppellendo antichi dolori.

<< Si uccisero. >> disse dopo una lunga pausa << Tutti tranne mio nonno Gredios. E me, naturalmente. >>

Elshan annuì, ripensando a ciò che ricordava aver visto nella fortezza d'Arenai il giorno in cui gl'Invasori s'erano palesati sotto le mura della capitale. Cadaveri, a decine, con i polsi squarciati e le pupille fisse ad un cielo che mai più avrebbero guardato. Cadaveri vestiti di stracci o di gioielli, le facce pallide così simiglianti l'una all'altra nello squallore della morte autoinflitta.  Dunque era stato così per tutti, pensò il ragazzo. Tranne che per qualche coraggioso, o folle, a seconda dei punti di vista.

<< Vorrei che tuo nonno fosse qui, per infonderci il suo coraggio. >> sospirò il giovane, sentendosi improvvisamente piccolo ed inutile all'idea di doversi realmente confrontare con i Nuovi Uomini, i quali parevano dei nemici imbattibili. Tirarsi indietro oramai non poteva, nè voleva, giacchè sarebbe equivalso a lasciar spegnere l'ultima debole fiammella di speranza in un mondo di tenebre, ma in quel momento la sua fiducia nel futuro era ridotta ad un granello di sabbia perso nel vento dello sconforto che soffiava nella sua anima.

<< Oh >> fece laconico Orin, fissandolo  in maniera significativa << ma egli è qui. Credi che l'avrei mai abbandonato, dopo averlo tratto in salvo da un inferno come la Buca dei Pazzi? >>

Elshan iniziava a sentirsi oggetto di vago dileggio. Dove diavolo poteva essere lord Gredios, il prode capofamiglia dei Fannings, l'uomo ingiustamente imprigionato tra i folli, se lì sotto il cielo non vedeva altri che Orin, il vecchio dai denti a sciabola e l'uomo con il ginocchio fracassato? Orin Fannings lesse l'incredulità negli occhi del compagno, e decise di metterlo a conoscenza della realtà.

<< Lord Gredios! >> chiamò, sollevando al di sopra del capo metà della mela che costituiva la sua cena di quella sera.

Il vecchio balzò in piedi, digrignando le fomidabili zanne come un cane rabbioso. Prese a barcollare in direzione dei due uomini, con un'espressione idiota dipinta sul viso spaccato da decine di profondissime rughe. Non aveva occhi che per la mela nella mano di Orin.

<< Cosa diavolo significa? >> chiese Elshan, seccato. Se era uno scherzo lo trovava molto poco divertente.

<< Costui è lord Gredios Fannings. >> rispose placido Orin, porgendo la mela alla povera cariatide, che l'ingollò in un sol boccone << Immagino tu sia desideroso di conoscere ciò che ridusse uno degli uomini più intelligenti e risoluti del nostro paese nell'animale che hai davanti. >>

Elshan cominciava a pensare che non si trattasse d'un macabro scherzo. Possibile che...

<< Come diavolo ha fatto a diventare così? >> chiese al fine, senza staccare gli occhi dal vecchio, il quale era adesso occupato a tentare di leccarsi le dita senza ferirsele con le abnormi zanne che gl'infestavano la bocca.

<< Vorrei saperlo anch'io. >> fu tutto ciò ch'ebbe da rispondere Orin Fannings, trangugiando dell'idromele dalla borraccia del compagno << Quando, superate mille mostruose insidie, giungemmo alla misera cella dov'era tenuto il nonno, lo trovammo già in queste condizioni. Dovevano averlo incatenato alla parete, giacchè dalla roccia pendeva un anello d'acciao, ed uno simile serrava una delle sue caviglie. Ma di catene non v'era traccia, tanto ch'egli si muoveva liberamente nella stanza buia e lercia che l'ospitava da anni. >>

<< Cosa pensi sia stato della...catena? >> domandò Elshan, sorprendendosi del tremore della sua voce.

<< Tu cosa credi ne sia stato? >> ribattè con una smorfia Orin. << Deve averla rosicchiata, anche se non capirò mai come abbia fatto a sviluppare delle simili fauci. Lo scherzo di un demone annoiato, forse, oppure semplicemente della natura, di cui sappiamo così poco. >>

<< E'... pazzo? >> a questo punto il timore del giovane d'Arenai era più che giustificato. Il vecchio saltò su come un pupazzo a molla, spaventando a morte Elshan.

<< Ghr...e...d...osh Fff...Ff...nnigsh. No...paschiio... >> mugugnò con voce incredibilmente stridùla, ed il sorriso distorto che seguì quel penoso tentativo di comunicazione fu la parte peggiore del suo intervento.

Orin sorrise. Il volto scavato parve illuminarsi d'una inaspettata bellezza sotto i raggi lunari. << Sono le uniche parole che riesce ad articolare. >> spiegò. << E' lui >> aggiunse un attimo dopo << fidati. Mi ha tenuto tra le sue braccia quand'era forte e capace di fronteggiare ogni situazione con solo l'uso del suo innato ingegno. E ricorda il suo nome. Non posso sbagliarmi, Elshan. >> lord Gredios poggiò un adunco artiglio sulla spalla esile di Orin, guardandolo come un cane guarda il proprio padrone.

<< Non è cattivo, ma se gliel'ordino può uccidere un orso. >>

Elshan era confuso e incredulo. Il suo sguardo vagò nella notte stellata, soffermandosi alfine sulla sagoma del terzo avvoltoio, addormentato sotto una coperta di foglie e rami secchi.

<< Lui chi è? >> chiese dopo un attimo.

<< L'uomo che hai reso zoppo è Calliwan Rhodax >> rispose Orin << ed è il mio servitore personale. Siamo cresciuti insieme, sai, e lo vedo oramai come un buon amico piuttosto che come un attendente. In altri tempi t'avrei sgozzato senza esitazione per quello che gli hai fatto, ma adesso... >>

<< ...adesso non ci riusciresti. >> finì Elshan, sostenendo lo sguardo del compagno. Seppe allora d'aver giudicato male quella gente. In essa i sentimenti non erano morti, ma soltanto sopiti, nascosti ad un mondo che li aveva resi inutili.

Orin Fannings rise, per la prima volta dopo anni, di vero gusto.

<< Probabilmente hai ragione >> disse poi << e spero che non vi sarà mai occasione d'appurarlo. Potresti rimanere sorpreso dall'abilità con la spada del nobile decaduto con cui stai conversando. >>

<< Allora forse mi sarai davvero utile contro i Nuovi. >> mormorò quasi tra sè Elshan. Fece per alzarsi e cercarsi qualche foglia che lo coprisse nel freddo della notte. Orin si raggomitolò su sè stesso, cadendo quasi immediatamente in un sonno profondo nonostante le condizioni climatiche decisamente sfavorevoli; doveva essere abituato a sopportare ben altro. Ben presto giacquero tutti addormentati sotto la luna, con il vecchio lord Gredios che russava della grossa spaventando gli animali notturni.

 

Il sorriso di Mirkon Solifald era come un fiore che tornasse a sbocciare nel mezzo d'una landa desolata dopo secoli di siccità. Com'era strano che gli uomini, i vecchi uomini amati dagli dèi luminosi, avessero dimenticato Bogoss, e che invece i Nuovi invasori si ricordassero del gigante talmente bene da volerlo distruggere. Esso era la più grande minaccia al loro incontrastato regnare, l'unica entità al mondo capace di spaventarli, di sconfiggere le loro armi e le loro bestie. Li aveva visti, Mirkon, attraverso un altro occhio sviluppatosi nella sua anima nel corso di secoli di solitudine. Li aveva visti venir fuori da un monte nero come la pece, ed aveva tremato scorgendo i visi inespressivi di cui era composta l'orda senza fine. Li aveva visti combattere, armati di lame fantastiche per forme e dimensioni, a cavallo di belve mangiatrici di fanciulli, ed aveva compreso che i vecchi uomini non avrebbero potuto mai farcela. Non senza Bogoss.

 Da tempo Mirkon Solifald non sorrideva, ma quella era un'occasione speciale. I muscoli del suo volto, atrofizzati da ottomila anni di non-vita trascorsi a vegliare il corpo inerte del titano di roccia, erano tornati a contrarsi, le labbra a piegarsi verso l'alto, gli occhi a inumidirsi per la commozione. Bogoss aveva mosso una delle enormi dita, grandi come il tronco d'una quercia centenaria. Pressochè impercettibile, e tuttavia indubbio era stato il piccolo spostamento, pochi centimetri sufficienti a rendere consapevole il millenario guardiano che la sua attesa stava per terminare. Accostò la torcia alla guancia dell'uomo di pietra, sussurrandogli all'orecchio con tutta la dolcezza di cui era ancora capace:

<< Presto ci conosceremo, mio vecchio amico. >>

 

                                                                              III                                                                      

 

Shuria guardò Tragga scomparire dietro una grossa roccia, impegnato nel consueto giro di controllo del tardo mattino. Il sole era strano quel giorno, pensò, anche se non avrebbe saputo spiegare cosa non la convincesse nella sfera di fuoco, alta nel cielo completamente sgombro e magnificamente azzurro. Si costrinse a rivolgere altrove i propri pensieri, e girò sui tacchi in direzione della grande costruzione di granito, adagiata su di un avvallamento del bianco e sabbioso terreno della cava. La porta era un singolo, enorme blocco di roccia che soltanto un Nuovo avrebbe potuto, non senza sforzo, spingere via, rivelando l'entrata dalla loro casa. Come tutte le Nuove donne, Shuria era forte al pari d'un maschio della propria razza, doppiamente intelligente e molto più abile nell'uso del linguaggio e degli utensili che non servissero per uccidere. Conosceva inoltre qualche parola dell'idioma dei vecchi uomini, e poteva capirlo e persino parlarlo rozzamente. Appoggiò le muscolose, orribilmente tatuate braccia contro il blocco e lo spinse da un lato, poi entrò nel cubicolo che faceva da anticamera e si richiuse la pesante porta alla spalle. La stanza principale era costituita da un grande spazio quadrato, illuminato da due finestre a sud e ovest, poveramente arredato con ciò che costituiva l'essenziale per la sopravvivenza sua e di Tragga; un grosso letto di legno, blocchi squadrati che fungevano da sedie e tavoli, ciotole di terracotta in cui mangiavano brodaglia ricavata dalle radici di svariate piante. Le pareti erano tappezzate di armi sconosciute e terrificanti. Una lancia lunga sei metri, rilucente come cristallo e più dura del miglior acciaio, faceva mostra di sè occupando l'intera parete nord. Appena sotto d'essa stava una spada che pareva esser stata forgiata dal diavolo in persona, tant'era maligna la forma dell'incredibile e letale lama a doppio taglio. Il tavolo su cui a fine giornata era solita riposare la frusta di Tragga era vuoto: Shuria cercò di ricordare le volte in cui aveva veduto il proprio compagno andare in giro senza l'abominevole, smisurato oggetto, ma la sua memoria non riuscì a regalarle una sola immagine di lui senza il serpente di cuoio che gli si contorceva ai piedi, e scoprì improvvisamente che la cosa non le piaceva. I suoi occhi corsero freneticamente alla parete est, dove si posarono, con gratitudine, sui pugnali assurdamente ricurvi ch'erano le sue armi preferite. " Falci di ghiaccio " li chiamava, due lame impossibili da scalfire che le avevano fatto guadagnare molti onori in battaglia. Due armi molto più dignitose, pensò, dell'orribile frusta che Tragga si trascinava dietro quasi fosse un prolungamento del suo braccio.

Avevano meritato la missione ch'era stata loro assegnata, ma le cose s'erano rivelate più difficili del previsto. La roccia della montagna era dura, e le braccia degli schiavi così deboli, lente ed inette nello svolgere il proprio compito. E intanto quel maledetto uomo di pietra avrebbe potuto destarsi da un momento all'altro. Qualcosa di simile alla paura scosse le forti spalle di Shuria mentre s'avvicina alla grande finestra ad ovest, che dava proprio sul versante più martoriato della montagna. Nessuno schiavo in vista. La cosa poteva essere normale, dal momento che spesso Tragga li spostava tutti in un unico punto, per concentrare gli scavi nelle zone in cui la roccia pareva meno coriacea. Eppure, una sorta di sesto senso, un'intuizione tragicamente esatta, le diceva che non era tutto a posto. Perchè non si sentivano i martelli picchiare contro la pietra? Perchè neppure una belva carnivora era visibile a quell'ora, in cui di solito erano si muovevano in branchi aspettando il pasto? Lo sguardo di Shuria volò di nuovo in alto, verso il sole anomalo che incombeva sulla cava silenziosa, e che pareva farsi beffe di lei tentando d'accecarla con i suoi raggi incandescenti. Con gli occhi che le lacrimavano per il dolore la Nuova donna sostenne la sfida del disco luminoso, rifiutandosi di distogliere lo sguardo. Ad un certo punto credette di distinguere una figura vagamente antropomorfa al centro della sfera infuocata, ma proprio mentre stava per realizzare di cosa si trattasse realmente la sua attenzione venne catturata da qualcosa che si muoveva al margine del proprio campo visivo. Di nuovo quella sensazione, nuova per lei. La paura, mai provata in battaglia, l'attanagliava adesso come un cappio, impedendole di muoversi od anche solo di formulare con chiarezza dei semplici pensieri. Restò immobile, fissando la scena che scorgeva dalla finestra. Sotto di lei, a centinaia, piccole formiche avanzavano silenziosamente per sorprendere Tragga alle spalle. Impugnavano i martelli, e sui loro volti sporchi e affranti si poteva leggere una nuova ed incrollabile determinazione. Era tutto finito. In qualche modo dovevano aver scoperto l'inganno, dovevano aver compreso che i loro aguzzini alla cava erano soltanto in due. Due contro tremila. Un barlume di ragione le attraversò la mente ottenebrata dalla disperazione, ed ella fischiò con quanto fiato aveva in corpo, richiamando a sè le belve carnivore. Non era finita, le belve avrebbero divorato fino all'ultimo di quei maledetti prima che i loro martelli potessero sfiorare lei o il suo compagno. Avrebbero chiesto altri schiavi, cui avrebbero mostrato, come deterrente alla rivolta, i poveri resti dei loro predecessori. Sì, si disse, avrebbero fatto proprio in quel modo.

Le belve non arrivarono. Sentì un gran trambusto alle sue spalle, e ben presto si ritrovò ad impugnare le falci di ghiaccio, in attesa d'uno scontro oramai più che prossimo. Alcuni degli schiavi, attirati dal suo fischio, s'erano staccati dal gruppo ch'ella aveva veduto, e tentavano in quel momento di rimuovere il grosso masso che fungeva da porta nell'abitazione di roccia rossa. Si guardò intorno, ed i suoi occhi individuarono due possibili vie di fuga nelle finestre ad ovest e sud della stanza in cui si trovava. Stava quasi per saltare giù quando s'accorse degli uomini che l'aspettavano in basso, con i martelli già sollevati. Corse all'altra finestra, ma ugualmente la trovò sorvegliata. Adesso la paura le faceva gridare oscure bestemmie nella sua incomprensibile lingua, e fu con occhi da bestia che si parò di fronte al gruppetto di assalitori appena entrato nella casa di roccia. Avevano rimosso, unendo le loro forze, il gran masso, e si riversavano nell'anticamera brandendo i martelli e pregando i loro dèi affinchè gli infondessero coraggio. Il primo d'essi cadde senza nemmeno accorgersene: una delle falci di ghiacchio disegnò veloce un'ellissi nell'aria, staccandogli di netto la testa dal collo. Gli altri iniziarono a menar fendenti a vuoto, a volte colpendosi vicendevolmente. Shuria si chiese se fossero più spaventati di lei, mentre correva in mezzo a loro roteando i pugnali con letale abilità, frutto d'una vita spesa nelle sale d'armi della vecchia città sotterranea che le aveva dato i natali. Ne uccise due lanciandosi in volo come una libellula dalle ali d'acciaio, un altro lo freddò con un doppio affondo al petto mentre tentava di sollevare il suo martello. Vide il sangue imbrattare i muri, sentì le urla disperate dei suoi patetici assalitori, e seppe d'essere in salvo quando si ritrovò illesa al di fuori della propria abitazione, spossata dalla lotta ma assolutamente priva del più piccolo graffio. L'eccitazione per lo scontro vinto lasciò presto il campo alla consapevolezza della propria situazione. Di lì a un istante sarebbero arrivati altri schiavi, e non poteva sperare di abbatterli tutti. Di nuovo, per un'ultima volta, volle guardare il sole. Questa volta scorse subito la figura all'interno del gran disco infuocato, e la riconobbe con terrore e rassegnazione. Era Sulia, la dèa luminosa amica dei vecchi uomini, e rideva per la sua disfatta oramai imminente. L'ultimo pensiero di Shuria, mentre fuggiva via dalla cava con tutte le energie che le rimanevano, fu per colui ch'era stato il suo unico compagno: il guerriero chiamato Tragga, ch'ella stava abbandonando al suo destino.     

 

<< Chi sei? >> la voce di Bogoss faceva tremare l'anima e la roccia. Il gigante si sollevò su di un gomito, raggiungendo l'altezza d'una torre di quattro piani. Da quella posizione poteva guardare Mirkon, più piccolo d'una coccinella al suo cospetto.

<< Mirkon è il mio nome >> rispose il vecchio guardiano << e per ottanta secoli ho vegliato su di te, per volere degli dèi di luce che conducesti qui sulla tua fredda schiena. Essi furono costretti ad abbandonare questo mondo, ma non si dimenticarono di te neppure nelle ore tragiche e convulse della loro disfatta. Un giorno torneranno, e tu sarai con essi. >>

<< Cosa ti sta succedendo? >> il volto di marmo parve oscurarsi. Preoccupazione, si sarebbe detto se si fosse trattato di un essere umano.

<< Sto morendo. >> Mirkon rispose << La luce che ha brillato in me per ottomila anni sta ora esaurendosi rapidamente, ed io ne sono grato agli dèi. Non v'è più ragione ch'io viva, adesso che la mia missione è compiuta, ed essi mi concedono il meritato riposo. >> chiuse gli occhi, pronto a scivolare nell'abbraccio di Sorella Morte, un incontro troppo a lungo rimandato.

<< Cosa gli dèi vogliono che faccia? >> chiese Bogoss. Il tuono ch'era la sua voce ebbe il potere di trattenere, per un istante ancora, l'anima di Mirkon dall' abbandonarsi all'oblìo << Cosa si aspettano da me? >>

<< I vecchi uomini attraversano tempi bui. >> il sussurrare del guardiano era appena udibile, ed il gigante dovette avvicinarglisi per comprendere << Aiutali se puoi. Gli dèi te ne saranno grati, quando torneranno. >>

Spirò adagiandosi sul blocco freddo che gli era servito da sedia in millenni di disperata, inimmaginabile solitudine, e l'interno buio della montagna venne illuminato a giorno dalla luce che fuggiva via dal suo petto, come una stella che tornasse a prendere il posto spettantegli nel firmamento.  

<< Mi sarebbe piaciuto...parlare più a lungo. >> in assurdo contrasto con  tutte le leggi che lo animavano, l'uomo di roccia si sentiva triste. Aspettò che il piccolo, vecchissimo compagno che lo aveva custodito durante il suo millenario sonno gli rispondesse. Cosa era successo dopo la caduta degli dèi luminosi, e che cosa stava arrecando sofferenza ai vecchi uomini? Doveva saperlo. Sfiorò con un dito enorme il capo di Mirkon, più gelido della pietra stessa. Qualcosa scivolò via dalle vesti del vecchio, qualcosa d'inutile che il guardiano aveva custodito per ottomila anni come la più importante delle reliquie. Era la pergamena che avrebbe dovuto placare la furia di Bogoss, una furia che non c'era.

<< Mirkon... >> mormorò ancora il gigante, invano. Non vi era più vita nel corpo abbandonato al suolo, ma l'espressione del volto, assolutamente serena, indicava che Mirkon Solifald era già al cospetto degli dèi che aveva servito per così tanto tempo.

 

<< Non li tratterremo ancora per molto! >> urlò Lych, madido di sudore. Dalla costruzione in legno ch'era l'enorme stalla delle belve carnivore proveniva ogni genere di suono demoniaco, quasi gli uomini stessero cercando d'impedire alle legioni dell'inferno d'invadere il mondo della luce. Cinquecento schiavi pressavano la grande porta della baracca, tenendo prigionieri i mostri in attesa che i loro compagni si liberassero di Tragga e Shuria. Le bestie ululavano orribilmente, ed i tremendi impatti che di tanto in tanto scuotevano la costruzione indicavano che molte d'esse si lanciavano contro le assi, tentando di sfondarle. Le forze delle formiche erano al limite, ma cedere non era un'opzione da prendere in considerazione, se non si voleva finire tra le fauci di quegli orrori.

Darlien era nelle ultime file, insieme agli uomini meno forti. Poteva vedere la schiena di Lych alcuni metri avanti a sè, circondata da quelle di decine di compagni stremati che urlavano per darsi coraggio. Si chiese cosa dovevano provare quelli della prima fila, praticamente faccia a faccia con le belve, ed in più con sulle spalle il peso gravante dell'intera barriera umana; pregò per loro, nella sua mente, mentre sul collo sentiva l'alito caldo dell'uomo che gli stava dietro.

<< Non mollare, ragazzo, o siamo perduti! >>

Non avrebbe mollato. Mai, finchè avesse avuto vita in corpo. Chinò la testa, tentando d'imprimere più potenza alla propria spinta, pressando con le braccia la schiena del compagno che aveva dinanzi. Vide un uomo non più giovane che si accasciava al suolo, spossato come un cavallo da tiro; non c'era quasi più aria respirabile nell'immane calca, solo polvere che intasava i polmoni e faceva bruciare gli occhi.

<< Non mollare, non mollare! >> ancora l'uomo alle sue spalle. Stava incitando sè stesso, non Darlien, e pareva che funzionasse, perchè riprese a spingere con più vigore. Per quanto ancora avrebbero retto? Il mare di schiene e braccia, di gambe e di teste chine per lo sforzo si sarebbe presto aperto sotto l'urto tremendo delle belve in trappola, ed allora sarebbe stata la fine di tutto.

<< Gens! >> urlò Lych, adesso invisibile a Darlien.

<< Gens! >> risposero dieci voci, all'unisono. Era un altro espediente per darsi coraggio: Gens stava affrontando Tragga insieme a quelli che non si trovavano là.

<< Gens! >> fu anche il grido di Darlien, perso in quello di cento e più altre voci appartenenti all'unico corpo indistinto che ancora riusciva a tenere prigionieri i mostri. Gens avrebbe udito, e non li avrebbe delusi.

 

Le donne formavano un ampio cerchio in quello ch'era lo spazio più esteso della cava, appena ai piedi del versante settentrionale della montagna martoriata dagli scavi. Erano centinaia, tutte immobili e silenti come statue di sale, le chiome bionde o brune agitate da un insolito vento, accorso a presenziare l'atto finale della piccola storia. Alcune piangevano, ma i loro visi erano ugualmente freddi, i loro occhi ugualmente carichi di risolutezza. E questo al Nuovo Uomo non piaceva. Tragga era il centro dell'insolito cerchio, la sua frusta lo affiancava in quella ch'era una lotta disperata condotta da disperati. Gli si scagliavano addosso in gruppi di otto o dieci, brandendo i martelli ch'erano le loro uniche armi, e tutti avevano quel dannato sguardo, quegli occhi carichi d'odio indicibile per lui e la sua razza.

<< Muori, maledetto! >> urlò uno schiavo, e gli si lanciò contro schiumando rabbia. La frusta parve muoversi autonomamente dalla volontà del suo padrone, e in un secondo un fiotto di sangue investì Tragga in pieno viso. Sputò quello che gli era finito in bocca, guardando il suo assalitore contorcersi al suolo. Non aveva più le gambe; la frusta gliele aveva tranciate di netto, come fossero arbusti rinsecchiti. Una donna, nel cerchio, urlò qualcosa; una delle sue compagne la schiaffeggiò per farla smettere. Non volevano apparire disperate ai suoi occhi, pensò Tragga. Volevano morire con dignità. Non aveva mai considerato i vecchi uomini capaci di un comportamento come quello; li aveva sempre ritenuti un popolo codardo e privo di forza d'animo. I suoi capi gli avevano detto che la schiavitù avrebbe piegato le deboli velleità di rivalsa di quella gente, ed invece le aveva rafforzate fino a spingerla ad insorgere. Altri schiavi entrarono nel cerchio, tentando di circondarlo. Uno d'essi era un ragazzino a malapena capace di reggere il grosso martello che impugnava con mani tremanti. Tragga lo guardò, dimenticandosi degli altri, e scoprì che non voleva ucciderlo. Stava succedendo qualcosa, qualcosa che lo avrebbe reso debole. Non poteva ormai più considerare i vecchi uomini alla stregua di bestie da lavoro, inferiori persino ai mostri carnivori che cavalcava. Non poteva più ucciderli mostrando la noncuranza con cui si schiaccia una formica, perchè formiche non erano, ma esseri al pari di lui e Shuria.

Shuria. Dov'era la sua compagna, mentr'egli fronteggiava la disperata rabbia degli schiavi ribelli, tormentato da dubbi che mai avevano nemmeno lontanamente sfiorato la sua coscienza? Rimembrò le battaglie che avevano combattuto fianco a fianco, assolutamente dimentico del pericolo che stava correndo, e la sua mente vagò a ritroso nel tempo, rievocando il tempo in cui...

La mazzata che s'abbattè sul suo capo lo riportò traumaticamente alla realtà. Uno degli uomini alle sue spalle l'aveva centrato in pieno, spaccandogli il cranio tatuato. Assaporò il proprio sangue, così diverso da quello dello schiavo ucciso poco prima. Qualcuno incitò i combattenti. Timidi canti di augurio si levarono dal cerchio, intonati da voci sottili e tremanti per l'emozione. Di nuovo la frusta tacitò qualsiasi speranza, ma questa volta fu lui a comandarla. La fece schioccare sulle schiene dei nemici con mortale velocità, trapassandoli come fossero fatti di carne putrida, decapitandoli, martoriando i loro corpi incapaci di resistere a tanta potenza. Alla fine restò in piedi solo il ragazzino, in lacrime con gli occhi fissi nei suoi. Altri uomini entrarono nel cerchio, mentre Tragga iniziava a vedere i contorni delle cose in maniera curiosamente sfocata. Il sangue gli stava colando sugli occhi, e cominciava a sentirsi la testa stranamente leggera. Perchè Shuria non accorreva? Era morta, forse? Sciocchezze. Nessuno di quei miserabili poteva ucciderla. Nessuno poteva uccidere lui. La frusta lo protesse da un altro tremendo fendente che stava per abbattersi sul suo capo, strappando il martello dalle mani di un vecchio uomo e scagliandolo lontano; poi calò dall'alto sul malcapitato con una violenza assolutamente inaudita, dividendolo in due con perfezione chirurgica. Gli altri restarono interdetti per alcuni istanti, atterriti da una tale prova di forza. Tragga li fissò lungamente, soffermando lo sguardo gelido su ognuno di loro. Erano assolutamente insignificanti, pensò, in quella loro ridicola pantomima di ribelli che non avrebbe retto ancora a lungo. Uno solo d'essi gl'incuteva un certo rispetto, dovuto al fatto ch'era alto quasi quanto lui e similmente robusto nella muscolatura. Lo soppesò a lungo, mentre la frusta muoveva le enormi spire come un serpente pronto a scattare in avanti. Si chiese quale fosse il nome di quello schiavo, sorprendendosi d'una tale sciocca curiosità; fu il vento a portarglielo, urlato da centinaia di voci lontane provenienti da est, dalle stalle delle belve:

<< Gens! >>

Altri schiavi entrarono nel cerchio. Cominciavano a diventare troppi.

<< Gens! >>

Tragga sentì la frusta irrigidirsi nel palmo sudato, invitarlo al massacro. Egli esitava.

<< Gens! Gens! >>

Tre uomini gli saltarono alle spalle, urlando. Altri due lo attaccarono frontalmente. La frusta saettò impazzita nell'aria, ma non trovò nulla da tranciare, e rimpiombò a terra sollevando una nube di polvere spessa come nebbia di palude. Tragga la lasciò andare, deciso a servirsi delle proprie mani. Afferrò il collo di uno degli aggressori e premette, incurante degli altri quattro che tempestavano la sua schiena con una foga figlia del terrore, urlandogli contro ogni tipo d'insulto. Quando sentì la vita fuggire via dal corpo dell'uomo lo lasciò andare, e questi s'abbattè al suolo come un fantoccio, gli occhi ormai ciechi fissi al cielo. Si voltò, rapido come una pantera, verso gli altri, e scorse la paura nei loro occhi. Esitarono, e fu la loro fine. Afferrò i loro volti sconvolti dal terrore e vi piantò dentro le dita, imponendosi d'ignorare le urla raccapriccianti. Fu sorpreso del tempo che quegli esseri inferiori impiegavano a morire, e di nuovo un senso di rispetto per quei disperati, improvvisati guerrieri s'impossessò di lui. E di nuovo, l'aver indugiato in quei pensieri, gli risultò estremamente dannoso. Qualcosa si avvinghiò alla sua gamba destra, e prima che potesse rendersi conto di cosa si trattasse sentì la carne che veniva strappata dal polpaccio; urlò, cercando la frusta con occhi resi ciechi dal dolore e dalla rabbia. La trovò: l'oggetto malvagio fu felice d'essere di nuovo un tutt'uno con il proprio padrone. Tragga vide il grosso schiavo che correva verso di lui, vide altri uomini entrare nel cerchio sempre più stretto, ma non vide ciò che gli serrava la gamba. Soltanto dopo che la frusta si fu abbattuta sull'assalitore, riducendolo in fin di vita, realizzò che si trattava del ragazzino tremante che gli aveva ispirato - ora lo sapeva - una sorta di sentimento simile alla pietà. Giaceva al suolo, immobile eppur ancora vivo, le mani bianche protese verso di lui, quasi a volerlo ghermire a dispetto delle proprie condizioni. Cosa avesse spinto un così giovane ragazzo a staccare a morsi un pezzo della gamba del proprio aguzzino, ben sapendo d'andare incontro a morte sicura, era cosa che un Nuovo, pragmatico essere come Tragga mai avrebbe potuto comprendere. La sua mente, già offuscata dal dolore per la  grossa ferita al capo, stava per cedere sotto il peso delle domande ch'egli non sapeva evitare di porsi, affascinato com'era da tutto ciò che i suoi nemici stavano insegnandogli quel giorno. Gens lo colpì in pieno petto, scaraventandolo al suolo. Si rimise in piedi tossendo sangue, curvo sotto i colpi degli altri schiavi, i quali dovevano vedere finalmente vicina la vittoria sull'odiato nemico. Li allontanò roteando la frusta, ma non ne ferì nemmeno uno. Non voleva più, adesso che il giovane ragazzo stava esalando gli ultimi convulsi respiri, con il petto squarciato che si alzava e abbassava come un mantice. Stette a guardarlo a lungo, imponendo alla mostruosa frusta di non muoversi. Da est giunse il fragore di assi che crollavano. Nessuno parve prestarvi attenzione.

 

Cedette di schianto. Il frastuono delle assi che si spezzavano al passaggio del branco infernale si confuse con il rumore delle ossa frantumate, mentre da una nuvola di polvere emergevano le creature che cinquecento valorosi avevano invano tentato di trattenere. Lych e Darlien furono tra gli ultimi a cadere, investiti dall'orda che come un gigantesco carro da battaglia schiantava tutto ciò che gli si parava davanti senza rallentare d'un passo. Vennero sbalzati a dieci metri dal tremendo impatto e poi, prima che potessero anche solo rendersi conto di ciò ch'era accaduto, furono calpestati da centinaia di zoccoli frenetici, mentre le urla dei compagni riecheggiavano alte nel cielo.  Quando la polvere si disperse ciò che rimaneva del gruppo che aveva tentato la disperata impresa era una catasta di corpi squassati e inerti, disseminati in un raggio di seicento metri. Molti erano a brandelli, altri peggio ridotti ancora. Qualche sventurato era ancor moribondo, e pregava gli dèi affinchè gli concedessero una rapida dipartita, ponendo fine ad un'insopportabile agonìa. Nessuno di quei cinquecento si salvò. Avevano retto finchè avevano potuto, poi le bestie demoniache avevano avuto ragione delle loro residue forze. Il sole, ancora alto nel cielo, pianse per la loro sorte, maledicendo i Nuovi Uomini ed il giorno in cui erano comparsi per arrecare sventura alla razza umana.

 

Il ragazzo morì gorgogliando qualcosa che a Tragga suonò come una minaccia. L'imponente schiavo che chiamavano Gens s'inginocchiò in lacrime e lo strinse al suo petto, mentre tutti gli altri non perdevano di vista il Nuovo Uomo. Uno strano pensiero balenò nella mente di Tragga, mentre cercava invano di distogliere lo sguardo dal corpo senza vita del ragazzino: aveva ucciso centinaia di vecchi uomini, ma mai ne aveva veduto uno morire. Adesso che l'agonìa di uno d'essi aveva distrutto le barriere dietro le quali la sua razza s'era trincerata per divenire un popolo di perfette macchine da guerra, sapeva ch'era finita. Non per i suoi simili, ma per lui solo. Gli altri avrebbero continuato a vedere i vecchi uomini come animali inferiori e privi d'onore, portando avanti il progetto di conquista del mondo della superficie incuranti dei cadaveri che si ammucchiavano ai loro piedi. Ma lui non poteva più farlo, perchè aveva veduto il ragazzo morire. Non poteva più combattere, di conseguenza era divenuto inutile alla causa per cui il suo popolo lottava, e doveva morire. Lasciò cadere la frusta, che si attorcigliò spaventosamente su sè stessa, consapevole di aver esaurito il proprio compito. La gente rimase a guardare, timorosa e stupita. Quando il grosso Gens ebbe pianto abbastanza si girò alla volta del Nuovo Uomo. Nel suo sguardo v'era una nuova sfumatura di follia.

<< Era mio figlio. >> disse, ma Tragga non poteva capire. Si limitò ad indicare il martello, e poi la sua testa, sperando che lo schiavo comprendesse. E Gens comprese. Con un singolo, potentissimo colpo di martello, ed urlando il nome di Imer, divelse la testa tatuata dalle muscolose spalle, scagliandola lontano. Nessuno osò abbandonarsi a festeggiamenti sfrenati; il dolore di Gens meritava rispetto, e in secondo luogo non si poteva essere sicuri d'aver ucciso un diavolo come Tragga. Il corpo acefalo era rimasto in piedi, destando più di un timore che potesse rimettersi in movimento da un istante all'altro.

Così non fu, ma ugualmente i vecchi uomini dovettero rimanere immersi nell'abisso della paura; fu il rombo di centinaia di zampe amorfe a scuotere i loro animi, precipitandoli nuovamente in quel panico da cui s'erano appena liberati. Rimasero tutti paralizzati dal terrore, consapevoli che quella che s'avvicinava tonando non era una tempesta, ma qualcosa di ben peggiore che avrebbe reso vani i sacrifici patiti per guadagnarsi la libertà.

<< Via di qui! >> gridò qualcuno, lanciandosi in una disperata quanto inutile fuga nella direzione opposta a quella da cui proveniva l'immane galoppare. Gens non fu tra quelli che scapparono. Nuovamente si chinò ad abbracciare Imer, il suo coraggioso, unico figlio. Il corpo era già freddo, e così pallido il volto dove i primi peli della virilità avevano appena iniziato a spuntare. Sarebbe morto accanto a suo figlio, mentre intorno a lui si scatenava l'inferno.

I mostri sbucarono da dietro una roccia correndo ad una velocità spaventosa. Occhi ripugnanti si fissarono su Gens, solo al centro della distesa di pietra con il cadavere tra le braccia.

<< Geeens! >> chiamò qualcuno alle sue spalle, ma Gens aveva fatto la sua scelta. Molte donne urlarono, strattonate a forza dai mariti che ancora s'illudevano di poter trovare, da qualche parte, un rifugio. Le bestie infernali erano a non più di cinquanta metri da Gens, quando la montagna cominciò a tremare. Dapprima gli animali non arrestarono la propria corsa, accecati dall'odio e dalla fame, ma quando le rocce iniziarono a schizzare nel cielo come stelle cadenti il branco si disperse, terrorizzato. Gens era là, inginocchiato e attonito, e fu il primo testimone del prodigio che seguì. Il versante della montagna si spaccò letteralmente, e mentre tonnellate di pietra e polvere si abbattevano al suolo con un fragore di gran lunga superiore a quello provocato dalla corsa delle belve, un titano di granito emerse dalle viscere della terra, spaventoso e stupendo nella luce del tramonto. Una delle gigantesche mani lanciava enormi rocce all'indirizzo dei mostri carnivori, i quali tentavano inutilmente di scalfire la pietra millenaria di cui era composto il nuovo nemico; l'altra era aperta, e nella smisurata palma recava un vecchio disteso faccia al cielo, le braccia incrociate sul petto. Era morto.

<< Dèi del cielo >> Gens non riusciva a credere a ciò che stava vedendo con i propri occhi. Il titano di pietra schiacciò le belve sotto il suo incalcolabile peso, e quando nemmeno uno di quegli abomìni fu rimasto in vita i suoi piedi, da candidi come la neve, eran divenuti rossi come il sole che salutava la vittoria, scomparendo dietro i monti grigi e minacciosi. Alcuni degli schiavi fuggiti a nascondersi tornarono lentamente sul gran spiazzo, adesso ingombro dei corpi senza vita dei mostri carnivori. Ben presto furono di nuovo tutti là, attendendo che l'uomo di pietra facesse o dicesse qualcosa che potesse confortarli. Era dalla loro parte, questo era fuor d'ogni dubbio.

<< Ora siete liberi. >> disse al fine il gigante << Io devo andare. >>

La delusione calò negli animi dei vecchi uomini. Molti sguardi si abbassarono al suolo, disperati.

<< Senza il tuo aiuto saremo nuovamente schiavi nel giro di pochi giorni. >> ribattè Gens << Devi aiutarci a sconfiggerli tutti, o tutto questo sarà stato inutile. >>

Lungo fu il silenzio che seguì le parole di Gens, ma alla fine il gigante di marmo lasciò gli uomini con una speranza:

<< Quest'uomo si chiama Mirkon >> disse, indicando il vecchio disteso nel suo palmo  << ed ha vegliato su di me per un tempo che voi mortali nemmeno riuscireste a immaginare. E' ora ch'egli abbia la sepoltura che merita, nel giardino delle lucciole dove soltanto i giusti riposano. Dopo averlo portato là tornerò da voi per aiutarvi, ma non so quanto ci vorrà. Non sono ancora nel pieno delle forze, dopo tanto tempo passato senza muovermi. >>

<< Parti subito allora. >> disse Gens, rinfrancato << Noi intanto vedremo di arrangiarci. Dico bene? >> quest'ultima domanda fu rivolta ai suoi compagni.

Grida di giubilo e inni alla speranza giunsero in risposta dalle formiche ch'erano tornate ad essere uomini. Le coppie che la morte non aveva diviso si abbracciarono, coloro che avevano combattuto ringraziarono gli dèi per essere ancora in vita. Gran fuochi di festa vennero accesi in tutta la cava, ed in alcuni d'essi vennero bruciati i cadaveri delle orribili bestie uccise da Bogoss, il titano ridestatosi nella montagna. La notte pareva stupenda, e la sagoma del gigante che volava contro la luna affascinò più d'un animo sensibile, infondendo speranza nei cuori dei sopravvissuti alle lotte di quella giornata. Il mattino seguente avrebbero seppellito i loro morti, tra cui i cinquecento coraggiosi che, ritardando l'assalto delle bestie, avevano permesso agli altri di avere ragione di Tragga. Gens, tuttavia, non aspettò l'alba. La buca che scavò sotto le stelle giaceva ai piedi dell'unico albero nato nella rossa ed arida distesa di rocce dove il suo ragazzo aveva trovato una fine prematura, e gli parve il luogo migliore dove lasciarlo riposare. Pregò a lungo, e il nuovo giorno lo sorprese addormentato accanto alla tomba, con le mani ancora giunte ed un espressione di pace dipinta sul volto.

 

                                                                   Epilogo

 

<< Dite dunque che la cava è ad un sol giorno di cammino? >> chiese di nuovo Elshan. L'ansia di tradurre in azioni ciò che finora aveva soltanto predicato lo attanagliava sempre maggiormente man mano che s'avvicinava il momento fatidico. Lo straniero incappucciato si limitò ad annuire vigorosamente, sempre molto attento a non rivelare nemmeno un centimetro della propria pelle. Calzava guanti di strana pelle, e la tunica che indossava gli copriva abbondantemente il corpo ed i piedi; il cappuccio era chiuso in maniera da non permettere a nessuno di scorgere il viso. I tre compagni del giovane d'Arenai guardavano con sospetto al vagabondo, ma Elshan lo considerava soltanto un innocuo, stavagante personaggio che doveva portarsi appresso un gran carico di misteriose bizzarrie. Probabilmente temeva la luce, od il contatto con i suoi simili, oppure aveva fatto voto agli dèi di non rivelare il proprio aspetto. Ciò che importava, comunque, era che dicesse la verità sulla cava.

Quando il sole fu calato i quattro compagni di viaggio si riunirono intorno al fuoco, consumando i resti di alcuni topi selvatici catturati il giorno prima. Il vagabondo taciturno pareva addormentato, e giaceva su di un fianco a una ventina di metri. Era sempre molto schivo e pareva infastidito particolarmente dalla vicinanza di lord Gredios.

<< Ti dico che è una donna! >> quasi gridò Calliwan Rhodax. Il risentimento che provava nei confronti di Elshan era comprensibile: non avrebbe più camminato normalmente.

<< Come fai a saperlo? >> il giovane uomo di Arenai si sforzò d'opporre fermezza e calma alla crescente ira del proprio interlocutore.

<< Pezzo d'idiota! >> Orin Fannings dovette placcare Calliwan prima che afferrasse il bavero di Elshan << Guardala bene. Guarda le forme di quel saio della malora, e te ne accorgerai anche tu. >>

Elshan rimase in silenzio. Era solo l'astio che dava fiato allo zoppo, oppure c'era del vero nelle sue parole?

<< Se anche fosse una donna non sarebbe un pericolo per noi. >> ribattè dopo un poco. Lord Gredios ruttò sonoramente; stava per addormentarsi. Orin e Calliwan parevano attestati sulla stessa posizione.

<< Una donna non vaga da sola, in un mondo come questo. >> Orin tentò di portare Elshan alla ragione << Inoltre devi ammettere come sia decisamente strano il fatto che non voglia proferire parola nè mostrare nemmeno un dito del proprio corpo. Elshan, non possiamo portarla con noi. >>

<< Ammazziamola adesso. >> propose Calliwan, ed i suoi occhietti cattivi brillarono di ferocia alla luce della costellazione del Kraken. Elshan respinse la proposta con un gesto veloce della mano.

<< Non se ne parla. >> disse << Se ritenete che sia un pericolo, allora voglio sincerarmene di persona. Andrò io stesso a parlarle, domani all'alba, e vedrò di farmi dire qualche cosa. >>

<< Domattina potrebbe essere troppo tardi. >> ribattè enigmatico lo zoppo. Contraddire Elshan era il suo passatempo preferito. Orin lo tacitò con uno sguardo: << Domattina va bene. >> disse il nobile Fannings << Ora sarà meglio andare a riposare. >>

 

Il sole non era ancor sorto quando Elshan fu destato da un presagio oscuro, un sogno che sfumò nella memoria appena egli aprì gli occhi. Il misterioso vagabondo era in piedi a pochi centimetri da lui, sorpreso dal suo risveglio nell'intento di compiere qualche cosa di poco chiaro.

<< Chi sei? >> chiese il giovane uomo. Aveva già rivolto altre volte quella domanda allo sconosciuto, e non si aspettava risposta. Così fu.

<< Sei una donna? >>

Un'esitazione, poi il deciso gesto d'assenso. Calliwan aveva visto giusto. A questo punto Elshan aveva esaurito le domande. Il fatto che sotto la cappa nera si celasse una donna, che non volesse parlare nè mostrarsi, non implicava necessariamente un pericolo per loro.

<< Hai paura? >> domandò dopo un pò << Non devi averne. >> aggiunse senza aspettare risposta. Istintivamente avvicinò il proprio corpo a quello della donna celata, stringendola. Voleva dimostrarle di non essere ostile, voleva che sentisse la sua fiducia. O forse stava soltanto obbedendo ad un istinto, non poteva dirlo con chiarezza assoluta. Non riusciva a pensare liberamente, adesso che percepiva le forme inequivocabilmente femminili sotto la stoffa che gliele aveva nascoste fino a pochi istanti prima. Era alta, molto alta per essere una donna, ed aveva uno strano profumo. Cercò le sue labbra, non trovandole, e s'accontentò d'una guancia liscia e fredda come neve.

L'urlo che seguì ebbe il potere di scagliarlo all'indietro, completamente atterrito dall'inumanità di cui era pervaso. Vide dibattersi due figure, una delle quali era certamente la donna incappucciata che aveva stretta tra le braccia un momento prima; l'altra pareva una belva sanguinaria che l'azzannava al collo, in un inferno di grida bestiali e grugniti di rabbia che fermavano il sangue nelle vene. Alla fine il vecchio lord Gredios mollò la presa, le fauci lupesche grondanti sangue. Sembrava soddisfatto di sè, e ricevette i complimenti del nipote Orin, il quale lo premiò con una mela. La donna era morta, attorno a lei una macchia nera s'allargava a velocità disgustosa. La sua gola non esisteva praticamente più.

<< Cosa...cosa ha fatto? >> Elshan era furibondo, sorpreso, incredulo.

<< Guardala bene Elshan. >> la voce di Orin era bassa, grave.

<< Perchè mai l'ha...vecchio pazzo! >>

<< Guardala, per gli dèi. >>

La guardò, vincendo il ribrezzo, ricacciando via lacrime di rabbia amare come veleno. Nella lotta disperata aveva perso il saio, ed anche i guanti. Era tatuata dalla testa ai piedi, muscolosa come il più prestante dei guerrieri. Nella mano sinistra stringeva ancora una orribile lama di pugnale ricurva in modo incredibile. Lo sguardo di Elshan si fissò sull'oggetto di morte.

<< Ti avrebbe ucciso con quello, mentre tu ti dilettavi a sbaciucchiarla. >> il sarcasmo di Calliwan era il minimo che uno stolto come lui potesse meritarsi. Finire tra le braccia d'un Invasore, offrire il petto alle sue armi, soltanto in ossequio ad un istinto cui era stato incapace di resistere. Abbassò il capo, afflitto dalla propria stupidità.

<< Grazie, lord Gredios. >> fu tutto ciò ch'ebbe da dire << Vi devo la vita. >>

Il vecchio lupo cadente rise tremendamente, elargendogli un'energica pacca sulla spalla. Nonostante tutto era un bel momento.

Era da poco trascorso il mezzogiorno quando all'orizzonte si profilò la gran montagna ai piedi della quale doveva sorgere la cava di pietra. Elshan esortò i compagni a procedere con passo più spedito: ora che aveva veduto morto uno dei nuovi, sapeva che potevano essere uccisi come chiunque, e non stava più nella pelle. L'immagine di suo padre tornò a visitarlo; era sorridente per la strada che suo figlio aveva scelto di percorrere. Sarebbe diventato una specie di leggenda vivente, il vendicatore dei vecchi uomini. Avrebbe liberato la cava e goduto dell'eterna riconoscenza degli schiavi strappati al giogo.

 

Nulla di ciò si realizzò. A metà strada s'imbatterono in una moltitudine di uomini e donne che avanzava nella direzione opposta alla loro, sporchi e male in arnese come uomini-avvoltoio, ma inequivocabilmente festanti. Molti d'essi impugnavano martelli che levavano al cielo, insieme a grida di vittoria e bestemmie all'indirizzo degl'Invasori. Frastornati, Elshan e compagni chiesero loro informazioni sulla cava e sui Nuovi che vi dimoravano.

<< Non c'è più nulla di vivo alla cava. >> rispose uno degli ex-schiavi. Il suo martello era sporco di sangue.

<< Che fine hanno fatto gl'Invasori che...per gli dèi! >> Elshan d'Arenai non potè trattenere l'esclamazione. Qualcuno, tra la folla, aveva innalzato un lungo palo sulla sommità del quale stava infilata la testa tatuata di un Nuovo uomo. Aveva occhi e bocca spalancate, ed un lato del cranio era letteralmente sfasciato, segno della tremenda potenza con cui era stato colpito. Enormi mosconi verdi non cessavano di tormentare il macabro trofeo. Elshan e compagnia non sapevano se gioire o provare delusione: avevano creduto d'essere la scintilla destinata ad innescare la riscossa, ed invece il fuoco era divampato senza il loro contributo. Certo, avevano ucciso un Invasore, ma si era trattato di una casualità, e per poco non ci rimetttevano la pelle. Restava poco da fare se non riconoscere la vittoria degli schiavi e gioire con essi.

<< Volete unirvi a noi? >>

Elshan fissò lungamente l'imponente figura che aveva parlato, e vi riconobbe il capo carismatico dei ribelli.

<< Cosa farete adesso che siete liberi? >> gli chiese dopo un istante. L'uomo sorrise sardonico, carezzando il martello.

<< Faremo rotolare molte altre teste tatuate. >> rispose. Alle sue spalle si levarono urla di approvazione.

<< Suppongo che dovremo sottostare al tuo comando, se ci uniamo a te. >> intervenne Orin, cui l'idea non piaceva granchè << Sono Orin Fannings, e sono stato istruito a condurre, non a seguire. >>

Il silenzio che seguì fu appropriatamente spezzato dal grosso schiavo, che non raccolse la provocazione:

<< Il mio nome è Gens Kastrid, e vi dico che molto presto vi saranno così tanti eserciti ribelli che potrete certamente comandarne uno, vostra maestà, se dimostrerete di averne l'attitudine. Adesso, volete seguirci o preferite continuare il vostro cammino in regale solitudine? >>

La risposta non ebbe bisogno di parole. I quattro si unirono all'armata dei martelli, stringendo mani e ricevendo amichevoli abbracci dagli uomini e le donne che la formavano. Lord Gredios trovò opportuno presentarsi tastando molto poco nobilmente il fondoschiena di qualche fanciulla, suscitando l'ilarità di più d'un astante. Quando ripresero la marcia Elshan sapeva di aver preso la decisione giusta: da solo non avrebbe mai potuto realizzare ciò che lo attendeva ora che s'era unito ai ribelli della cava. Presto avrebbe comandato una sua legione, e sarebbe passato alla leggenda come aveva sempre sognato.




Elfo Sanguinante