Racconti Fantasy

La Torre del Mago
 

La torre si stagliava alta nel cielo mentre la luna piena illuminava la notte con il suo argenteo splendore. I fuochi della magia gettavano verdi bagliori dalle finestre mentre l’esperimento andava avanti. All’interno della torre il mago stava evocando spiriti dal regno dei morti per acquisire le conoscenze necessarie al suo più grande esperimento, far ritornare un anima di un defunto nel corpo in formazione di un neonato per farlo rivivere. Aveva già trovato una donna adatta, in un casolare isolato dal villaggio, e l’aveva incantata senza che lei se ne accorgesse. Gli mancava soltanto un particolare, decidere chi voleva richiamare. L’esperimento aveva già richiesto più di sei anni, non poteva permettersi di sbagliare. Alarnost era uno dei più grandi stregoni dei suoi tempi. La sua magia era potente, ma la sua mente si stava sgretolando sotto l’influsso del suo troppo potere. Da anni ormai preferiva parlare con i morti anziché con i vivi. Aveva perso i contatti con la realtà, si era illuso di poterla tenere fuori dalle sue faccende, ma si sbagliava. Quella notte, gli uomini dei villaggi vicini alla sua torre si stavano avvicinando silenziosamente, guidati da un Inquisitore, un paladino che aveva giurato di annientare tutti coloro che lui chiamava “usufruttori di magia”, si trattasse di maghi, stregoni, fattucchiere o ciarlatani. Usava il proprio carisma e la devozione che la gente comune gli attribuiva per farsi aiutare nella sua “crociata” personale. I contadini avevano sempre avuto paura di Alarnost, di cui diffidavano. Non fu difficile così convincerli, fornire loro le armi e farli attaccare proprio mentre era evidente che il mago era distratto da un esperimento. Scivolando nelle ombre della notte si avvicinarono in silenzio alla torre, ma il mago non era uno sprovveduto. Un piccolo contingente di non morti, che era stato posizionato lì di guardia decenni prima, quando Alarnost era ancora in sé, li attaccò. Il rumore della battaglia richiamò l’attenzione del vecchio mago, che si sporse alla finestra appena in tempo per vedere i suoi non-morti colpiti da un esorcismo dell’Inquisitore che li privò dell’energia magica che li sosteneva, facendoli cadere a terra, ripiombati nuovamente nella morte. Il mago era già fortemente provato dall’esperimento, così che già quando uscì per contrastare la gentaglia che lo attaccava seppe che non poteva farcela. Dalle sue mani uscirono palle di fuoco, muri di ombre verdi e diafane, illusioni e fiammate che illuminavano tutta la notte per miglia e miglia. In mezzo a tutte queste luci si stagliava la torre, come un nero obelisco in un palcoscenico illuminato di una tragedia. Ma molti dei sortilegi del mago venivano cancellati dall’Inquisitore, che faceva scudo alla massa degli uomini stretti intorno a lui, mentre abbattevano le grandi porte di quercia. Gli antichi guardiani si risvegliarono e attaccarono gli invasori. Ma erano troppo pochi, e furono presto travolti. Intanto nella più alta sommità della torre il mago si preparava a morire, richiamando alla memoria gli ultimi incantesimi che gli rimanevano. Fu allora che i morti, con i quali aveva spesso parlato per mezzo di incantesimi, si presentarono volontariamente al suo cospetto, dato che ormai era così vicino a loro, così prossimo alla morte… “Hai ancora un incantesimo per salvarti…” disse una voce spettrale dentro la sua testa….”…puoi ancora sopravvivere…” le voci si susseguivano nella sua testa cambiando tono e espressione. Coloro che gli parlavano erano uomini e donne, vecchi e giovani, elfi e nani, uomini e halfling…”…usa il tuo ultimo incantesimo…puoi salvarti…puoi ancora ritornare alla vita…puoi portare le tue conoscenze con te…puoi non far perdere il tuo segreto…fallo…” con le voci che gli esplodevano nella testa Alarnost iniziò il suo ultimo incantesimo, mentre gli uomini stavano cercando di abbattere la porta della sala. Mentre le parole dell’incantesimo fluivano nella sua mente come un fiume in piena un dubbio gli rodeva la mente, se l’incantesimo era fatto per richiamare un morto nel corpo di un vivo, cosa sarebbe successo se un vivo avesse tentato di entrare lui stesso nel corpo di un altro vivo…ma ormai l’incantesimo era iniziato e doveva portarlo avanti fino in fondo. Prima che gli intrusi potessero sfondare le porte Alarnost finì il suo incantesimo. Una intensissima luce bianca illuminò tutto quello che si trovava a tre miglia dalla torre, mentre il corpo del mago si disfaceva in polvere mentre la sua mente era trascinata lontano. Fu qui che iniziò una lotta per il controllo. Due volontà si scontrarono. Una armata dalla potenza dell’incantesimo e dagli ultimi rimasugli di un antico immenso potere, l’altra armata dalla forza della natura, che non voleva fosse alterato il suo corso, e dalla volontà di avere quello che le spettava, quello spazio che era solo suo. Nello scontro tra le due forze le pareti delle due volontà si ruppero, e a causa della loro stessa intensità le due volontà si fusero, in maniera tale da formare un unico dove tutto ciò che c’era prima era cancellato e sepolto in profondità al tempo stesso, profondità che lo avvilupparono con profondi legami. Così mentre la torre bruciava in lontananza, Alarnost, che non era più Alarnost, era di nuovo dentro l’utero di una donna, una semplice popolana, una vedova che tirava avanti con il sudore della sua fronte, che non aveva mai avuto alcunché a che fare con la magia…forse…

 

Gli anni erano passati lenti, duri e difficili per la madre e il suo bambino, che chiamò Lasenfart, pieni di insidie e sofferenze. La madre aveva dovuto arrangiarsi per educare e mantenere il figlio. Il padre era morto in una guerra contro gli orchi, e lei era rimasta sola. Era un abile tessitrice, e così alternava il lavoro dei campicelli dietro casa con la tessitura per poter guadagnare qualche soldo in più. Ma la fatica e le preoccupazioni l’avevano debilitata, e con l’andare del tempo era diventata facile preda delle malattie. Un giorno uno strano uomo che passava di lì chiese ospitalità in cambio di denaro. La donna vide subito che era un uomo braccato, con la fluente tunica graffiata dalle spine e una barba non rasata di parecchi giorni. Non ci pensò due volte e l’accolse in casa dividendo con lui la sua già scarsa cena. Fu in quell’occasione che l’uomo mostrò uno strano interesse per Lasenfart, che all’epoca aveva nove anni. Gli chiese di ripetere alcune parole, le parole di un semplice incantesimo di difficoltà minore. L’uomo si aspettava di vedere una debole reazione magica per vedere se il ragazzo era dotato, non si aspettava certo che eseguisse l’incantesimo alla perfezione. Da una delle lampade del soffitto ecco che giungevano strani rumori, poi la voce della donna e poi una strana musica, mentre il ragazzo rideva tutto contento… prima l’uomo che potesse parlare giunse loro il rumore di voci in avvicinamento. Si alzò subito in piedi, e la donna lo condusse nella sua camera e lo fece nascondere in un armadio. Si diresse poi in cucina e, fatte sparire tutte le tracce dell’uomo aspettò vicino alla porta. Quasi subito qualcuno bussò. Aperta la porta si trovò davanti ad un gruppo di persone armate di forche e spade, guidate dal capo del villaggio che, senza aspettare alcun invito, entrò in casa. “Dimmi subito dov’è!” la donna, fingendo di essere stupita disse “Di chi stai parlando?” “Del mago! Sappiamo che è passato di qua. Dicci dove è andato.” Un uomo abbigliato con ricche vesti entrò nella stanza dicendo “Suvvia, non siate così scortese con questa …ehm…signora. Non si preoccupi signora, stiamo solo cercando un mago, e verrà ricompensata generosamente per il suo aiuto, diciamo mille pezzi d’oro…” la fronte della donna si corrugò. Mille pezzi d’oro era quanto poteva sperare di guadagnare in dieci anni di duro lavoro, ma non avrebbe mai tradito chi gli aveva chiesto aiuto. “mi dispiace, non so proprio di chi state parlando…” “Suvvia signora, sappiamo che si è diretto da questa parte…” Mentre questa discussione si svolgeva Lasenfard sussurrava a bassa voce le parole dell’incantesimo. Proprio in quel momento dal bosco vennero rumori di passi e di piedi in corsa. Senza neppure scusarsi tutte le persone si lanciarono tra gi alberi, seguendo il sentiero che li avrebbe portati al villaggio a nord del bosco. Il mago intanto era uscito dal nascondiglio. Guardava meravigliato il bambino.

 

Si fermò lì due giorni per riprendere le forze prima di partire, e convinse la donna e il bambino ad unirsi in viaggio con lui, fino a Raniarst, una città stato indipendente vicino al regno di Lorder, governata dai maghi che qui avevano la sede di una accademia di magia. Il mago promise che si sarebbe occupato di loro per ringraziarli di quanto avevano fatto per lui, e avrebbe fatto sì che Lasenfard venisse istruito alle arti della magia. Dopo un lungo viaggio arrivarono alla città. Il mago procurò loro una casetta vicino al centro della città. Lui era quasi sempre fuori città, ma tornava di tanto in tanto per vedere come stavano. La madre di Lasenfard intanto non migliorava le sue condizioni, anzi era diventata debole e da tempo non si muoveva da casa. Intanto il figlio continuava a studiare. Il suo maestro era stupito da lui. Aveva istruito molti maghi, potenti e deboli, ma nessuno era come lui. Non aveva le caratteristiche dei maghi potenti, che fanno sì che gli incantesimi di questi ultimi siano più potenti degli altri, uscendo per le prime volte irruenti e incontrollati. Non aveva neanche le caratteristiche di nessun altro studente che aveva avuto prima di allora. Lui semplicemente era in grado di ripetere gli incantesimi che gli venivano insegnati al primo colpo, come se li conoscesse già da tempo, e ad un livello di accuratezza di un mago che li utilizzi da anni. Ma tuttavia non aumentava più in fretta degli altri il suo livello di potere. Non poteva lanciare incantesimi al di là delle sue facoltà ancora in crescita. No, non era uno studente qualsiasi. Non aveva come alcuni una passione sfrenata nei confronti della magia, e neanche una bramosia di conoscenza. E poi il suo corpo non si consumava come quello di tutti gli altri studenti, o perlomeno non così in fretta. Lo studio della magia, il fatto di stare sempre sui libri rendeva debole e magro il corpo degli studenti, e lo sforzo per la magia li rendeva più gracili. “Non per questo ragazzo però” pensava il suo maestro. Sembrava che Lasenfard non si fosse indebolito affatto. No, al maestro non piaceva il suo allievo, non si fidava di lui. Perché poi? Le uniche altre cose anomale a parte la magia in lui erano l’eccessiva riservatezza e la scarsa unione che aveva con gli altri ragazzi. Passava il tempo ad accudire sua madre, e sembrava che non avesse né interesse né bisogno di farsi degli amici. Ma quello che non sapevano era che il suo problema era un altro. Nella sua vita non aveva mai trovato uno scopo. Perché studiava la magia allora? Non se lo sapeva spiegare, era una necessità che sentiva, quasi una ricerca di completezza. Ma che fare poi? Non aveva bramosia di oro o potere come gli altri suoi compagni. La sua mente era brillante e acuta, ma la sua era un’anima semplice. O forse no? Sentiva il bisogno di un qualcosa, che a volte gli sembrava il potere, ma in lui c’era come un blocco, come il ricordo di un’antica violenza subita che gli impediva di poterselo porre come obbiettivo. Passava lungo tempo a meditare, e la sua testa era come un campo di battaglia, in cui pensieri e idee si accavallavano. Ormai era prossimo al raggiungimento del suo ultimo anno di preparazione ai bassi livelli. Poi sarebbe passato agli incantesimi di un livello di potere maggiore. Proprio in quel periodo giunse una convocazione urgente dal mago che avevano aiutato, che chiedeva di raggiungerlo in un paesino vicino. Dato tutto quello che aveva fatto per loro si incamminarono subito per raggiungere il paese. Mentre attraversavano la foresta una strana sensazione si fece largo in Lasenfard. Un senso di pericolo imminente. Preparò nella sua mente un incantesimo difensivo, ma prima che potesse fare alcunché deformi creature uscirono dai cespugli. Riuscì a malapena a inviare una richiesta di aiuto al suo maestro e a inziare a lanciare un incantesimo di attacco. Gli orchi si gettarono su di loro facendogli perdere la concentrazione necessaria per l’incantesimo. Prima che potesse reagire un orco infilzò sua madre con la spada. Qualcosa si ruppe nella mente di Lasenfard. Una abbagliante luce rossa gli invase la vista. Antiche conoscenze sepolte nei meandri della propria mente si liberarono, antiche capacità vennero a galla. Le personalità erano ancora fuse, ma le conoscenze di Alarnost vennero per un attimo alla superficie della sua coscienza. Nella sua mente si formulavano le parole di arcani incantesimi. Dalle sue mani irruppero torrenti di fiamme bluastre, a un suo comando alcuni degli orchi attaccarono i loro compagni, ad una sua parola un enorme sfera di fuoco colpì in pieno un gruppo di fuggiaschi. Dardi di fiamme colpivano gli orchi che si davano alla fuga. Alla luce di una nuvola verdognola parecchi orchi si trasformarono in pietra e ad una sua parola un vento impetuoso li fece cadere. Dopo pochi secondi di tutti i trenta orchi non rimanevano che cadaveri. Il potere si allontanò da lui man mano che le nebbie del suo inconscio riavvolgeva le sue antiche conoscenze. Si sentiva solo e abbandonato. Si avvicinò alla madre, che era ormai morta. Non avrebbe potuto darle un ultimo saluto, non avrebbe potuto dirle quanto la amava, non avrebbe… Mentre questi pensieri aleggiavano sopra di lui come le nuvole di un temporale, un voto gli pervenne alle labbra. Avrebbe vendicato la sua morte. Avrebbe avuto come unico scopo la distruzione di ... Di cosa? Orchi? O forse … No, non voleva la distruzione dei soli orchi, ma di tutto quello che era di pericolo per la gente comune, gente come sua madre, gente come parte della sua anima. Ora vedeva chiaramente davanti a se uno scopo, una meta. Ma per raggiungerla aveva bisogno di potere. Molto potere. Si era spesso chiesto che cos’era a infiammare i cuori dei suoi compagni quando praticavano la magia. Ora sapeva che cosa gli spingeva. Aveva avuto un assaggio del vero potere, per un attimo aveva provato l’emozione di controllare la materia, gli elementi, la vita stessa. Era come un forte liquore, dava alla testa, si rendeva desiderabile, diventava una sete. Una sete di potere. Iniziò a seppellire sua madre ai margini della foresta. Sua madre non era legata a nessun posto, e quello poteva essere un buon posto per una sepoltura, immersi in un mare di verde, in un mare di vita, vicino ad una strada, quasi posta a monito dei viandanti. Ci sarebbe tornato, si disse. Avrebbe costruito una piccola cappella in suo onore. Avrebbe reso quel luogo un posto incantevole, una meraviglia della foresta… Mentre la seppelliva una strana consapevolezza si fece strada dai più profondi abissi del suo subconscio. Poteva farla tornare. Non sapeva come ma poteva. Bastava avere più potere, più potenza, più conoscenze. Mentre copriva la tomba tutti questi pensieri si allontanarono da lui, come se fossero rimasti sepolti con il corpo di sua madre. Stava per allontanarsi quando sentì movimento alle sue spalle. Era il suo maestro. Anche se per lui il tempo era come volato nella realtà era passata un’ora da quando aveva mandato la richiesta di aiuto con un incantesimo al suo maestro. E ora lui lo guardava, vedeva le vesti lacere e sporche di terra, vedeva le mani insanguinate, il volto rigato dalle lacrime che continuavano a scorrergli sulle guance, vedeva la tristezza del suo volto ma soprattutto vedeva i corpi morti degli orchi. Vedeva i segni di una magia potente e incontrollata, animata solo dal desiderio di distruggere ed annientare, una magia che il giovane non doveva conoscere, che non avrebbe potuto usare. “Maestro, siamo stati attaccati e mia madre…” Senza neppure cambiare espressione il maestro gli rispose “hai lasciato che la magia prendesse il controllo. Hai usato incantesimi che non dovevi conoscere. Sei un pericolo. Non tornare mai più all’accademia. Io ti giudico indegno.” Senza neppure ascoltare la risposta si volatilizzò nell’aria, abbandonandolo. Solo dopo alcuni minuti il giovane comprese la gravità della situazione. Aveva desiderato il potere, per la prima volta e gli era negato, aveva voluto… Una sola cosa gli impedì di abbandonarsi alla disperazione. Il mago che aveva aiutato gli avrebbe potuto insegnare, non lo avrebbe abbandonato. Dentro il suo cuore lo considerava come il padre che non aveva mai avuto. Si diresse come uno zombi verso il villaggio. Non notava nulla di quello che accadeva intorno a se. Sentiva solo la sensazione di disastro imminente che lo obbligava ad accelerare il passo. Non riusciva a capire il motivo di quella strana sensazione. Lo comprese solo quando capì che anche il mago era morto. Non sentì neppure le condoglianze che le persone gli rivolgevano vedendo la sua faccia disperata. Non sentì nemmeno le cause della sua morte. Non sapeva cosa fare. Voleva solo smettere di soffrire. Voleva solo dormire di un sonno senza tempo che lo liberasse dall’angoscia che provava. Una nuova consapevolezza si fece strada nella sua mente. Aveva bisogno di un insegnante? No. Aveva solo bisogno di un libro degli incantesimi. Li avrebbe imparati rapidamente come aveva sempre fatto. E lui sapeva dove procurarseli. Non sapeva perché ma era sicuro che a ovest ci fosse una torre, una antica torre di magia deturpata dal fuoco. Un fuoco che aveva bruciato i mobili, i grandi tomi della biblioteca, ma che non poteva aver distrutto i libri degli incantesimi, che erano stati protetti contro questa eventualità. Gli sciocchi che avevano dato fuoco alla torre non lo sapevano, e non avevano più voluto entrare dentro la torre, che consideravano maledetta. Era tutto lì che lo aspettava.

 

Si rimise in viaggio dopo aver speso i suoi ultimi soldi in provviste per due settimane. Dopo alcuni giorni giunse in prossimità della meta. Smaniava dalla voglia di entrare nella torre, ma sapeva che sarebbe stata la mossa sbagliata. La torre non era poi così distante dalla città, e se ci entrava senza precauzione probabilmente l’avrebbero visto. “che problema c’è anche se mi vedono?” pensò. Non ne era sicuro, ma era come se qualcosa gli dicesse che era meglio non affrettarsi. Era meglio conquistarsi prima la fiducia degli abitanti del luogo. Era importante non ripetere lo stesso errore. Quale errore? Non sapeva rispondersi, ma sapeva che era meglio seguire quelle intuizioni. E poi comunque doveva trovare un modo per guadagnare qualche soldo. Doveva pur mangiare. Si aggirava tra il paese quando notò quello che faceva per lui. L’emporio del villaggio aveva bisogno di un contabile per un periodo di tempo limitato, a causa di un viaggio di uno dei figli del proprietario. Il proprietario era anche potestà del paese, giudice, avvocato… Una sorta di factotum del paese. E, cosa più importante, conosceva bene suo padre. Lui non l’aveva mai saputo, ma suo padre era originario di quel villaggio. Pareva che tutti lo conoscessero, e dopo aver superato lo sbigottimento di vederlo diventato studioso di magia tutti gli fecero le condoglianze e si informarono sulla sorte di sua madre. Iniziò subito a lavorare, e per lui quello era un lavoro banale. Abituato alla difficoltà della magia, tenere i conti di un piccolo emporio di campagna non gli occupava mai più di una mezza giornata. Non era mai stato un tipo socievole, ma scoperse di essere dotato di un buon carisma e soprattutto di un buon spirito dell’umorismo. Il suo grado culturale faceva si che la discussione con lui fosse molto piacevole, e così gli abitanti, da sempre più che sospettosi rispetto a quello che riguardava la magia, iniziarono a pensare che essere un mago non era poi una cattiva cosa. Stando a quello che diceva la magia non era altro che un ripetersi di formule e poteva essere davvero utile. Si, d’accordo, c’era quella malvagia, ma gli stregoni per bene non la adoperavano… Tutte queste bugie, sapientemente confezionate e distribuite da Lasenfard durante molte conversazioni e discussioni, sortirono il loro effetto. Nel giro di una settimana gli abitanti del villaggio pensavano di sapere tutto quello che riguardava la magia, e i destinatari delle nuove informazioni di Lasenfard, tutte rigorosamente rivelate a quattrocchi, le facevano  conoscere all’intero villaggio non più di tre ore dopo. Pian piano Lasenfard insinuò l’idea che bisognasse ispezionare la torre per liberarla dalle ultime vestigia della magia malvagia. L’idea prese forma nella mente del potestà, ma nessuno voleva accompagnare il giovane nell’esplorazione. Lasenfard si offrì di andare da solo e la sua decisione fu accolta come fosse un gesto di eroismo. Mentre la brama di potere quasi lo sopraffaceva Lasenfard entrò nella torre. L’interno era sotto il più completo sfacelo. Il fuoco aveva bruciato i mobili e gli arazzi, mandato in frantumi le pozioni e annerito i muri. Tra tutto questo caos ogni tanto si notava un oggetto che si era salvato grazie alla sua forza magica. Un falcetto per raccogliere le piante necessarie agli incantesimi, qualche libro incantato protetto da rune magiche, alcuni amuleti di protezione contro le caotiche forze della magia. Ma in tutto questo caos Lasenfard sapeva dove andare. Se lo ricordava. Come? Non lo sapeva neanche lui, e neanche gli importava. Si diresse verso una parete nascosta nell’ombra e, recitate le parole magiche, fece aprire la porta. Entrò nello studio segreto e vide il grande scaffale pieno di volumi. Non avrebbe mai potuto portarli via tutti in un colpo solo. Ma aveva tempo in abbondanza. Prese i primi tre volumi e li infilò in una delle borse che contenevano gli ingredienti per “l’incantesimo” che doveva liberare la torre. Dopo essere uscito disse al potestà “l’incendio ha liberato la torre da ogni pericolo, ma c’è ancora un grande incantesimo di fondo, non pericoloso ma fastidioso. Posso spezzarlo, ma mi ci vorrà del tempo. Verrò qui ogni giorno se necessario, finchè vi libererò dalle ultime vestigia di quella malefica magia.” Le sue parole ottennero molto più di quanto aveva sperato. Non solo aveva il libero accesso alla torre, ma fu stabilito che ricevesse un compenso per il tempo che impiegava per “aiutarli”. Anzi, gli costruirono non lontano una casupola perché non fosse obbligato a fare la strada ogni giorno. Ogni due giorni gli portavano da mangiare e raccoglievano le piante che lui considerava necessarie per l’incantesimo. Quando tornava in paese facevano a gara per poter sentire i suoi progressi. Erano gente semplice. E se parte della sua anima gioiva per la buona sorte che aveva avuto, l’altra metà si rattristava per averli ingannati.

 

Lo studio nella stanza segreta occupava gran parte della sua giornata. Ogni nuovo incantesimo che imparava era fonte di gioia per lui. Se i suoi precedenti maestri gli avevano mostrato incantesimi difensivi, basati sulle illusioni e sul controllo delle sfere degli elementi per proteggersi, quei libri invece traboccavano di incantesimi offensivi, di controllo e di incremento del potere. Erano i libri di un mago viaggiatore, preoccupato dei pericoli della strada, mentre la preparazione che gli era stata data prima era appropriata per un mago cittadino, uno studente. Quegli incantesimi gli sarebbero stati forse insegnati più avanti, quando i maestri lo avessero ritenuto degno. Ma ora poteva averli subito, e se ne riempiva. Si sentiva come un vaso in cui ogni giorno sono versate preziose gocce di conoscenza. Ma nonostante tutto non riusciva a tenerli a mente tutti. Ormai ne conosceva molte decine, ma poteva tenerne a mente solo una decina, tra cui la gran parte erano incantesimi minori. Aveva provato a leggere quelli dei libri più avanzati, ma non riusciva a ricordarli tutti con precisione. Non era ancora abbastanza potente. Aveva raggiunto il limite che lo studio gli poteva portare. Sapeva che per migliorare avrebbe dovuto viaggiare molto, e soprattutto mettere in pratica gli incantesimi che già conosceva. Solo con l’utilizzo del potere che già aveva poteva incrementare le sue capacità abbastanza da permettergli di usare incantesimi più potenti. Intanto aveva trovato nei meandri della torre alcuni oggetti molto interessanti. Prima di tutto una decina di piccole pozioni di un colore blu cielo che sapeva essere pozioni di guarigione, alcuni rari componenti per incantesimi e parecchie mappe. Ma le scoperte più interessanti le aveva fatte quando guidato da una delle solite intuizioni aveva scoperto una porta segreta che conduceva nei sotterranei della torre. Era entrato in una piccola stanza decorata a bassorilievi con al centro un raffinato tavolino ricoperto di stoffe e decorazioni. Se di esso stavano due oggetti molto interessanti. Il primo era una tunica di un rosso tenue, decorata con rune di un intenso blu notte. Era una veste magica. Pur essendo leggerissima e per niente ingombrante era resistente come un corpetto di cuoio. Era stata incantata in modo da renderla resistente al fuoco e all’acido, e all’interno aveva un numero incredibile di tasche in cui erano contenuti molti ingredienti per incantesimi. L’altro oggetto era all’apparenza un comune sacchetto di tela grezza con uno strano simbolo appeso al cordone della chiusura. E per chi non sapeva usarlo non era niente di più. Ma per chi conosceva le parole di comando si rivelava un oggetto preziosissimo. Infatti poteva contenere una grande quantità di oggetti senza pesare mai più di un chilo. Era vuoto, ma ci avrebbe pensato Lasenfard a riempirlo con tutti i libri degli incantesimi. Aveva finalmente trovato un modo per portarli via tutti con se. E dentro il sacchetto sarebbero stati al sicuro. Infatti qualsiasi cosa al suo interno era al sicuro da ogni attacco, compreso fuoco e umidità. Felice di queste scoperte e speranzoso di trovare altri oggetti preziosi nel sotterraneo si avviò verso l’altra porta che dava alle stanze successive. Ma appena aperta la porta si fermò attonito. Uno degli antichi guardiani posto a guardia della torre era lì davanti a lui. La sua magia non era sufficiente a fermare quel grande ammasso di pietra. La sola ragione per cui era ancora vivo era che la magia che lo animava aveva ricevuto per ordine di attaccare chiunque passasse di lì tranne il padrone. E lui non era il padrone e lo era al tempo stesso. Sapeva che il golem lo avrebbe attaccato subito se non se ne fosse andato di corsa. Senza pensarci due volte  si allontanò sbattendo la porta alle sue spalle. Gli ordini del golem erano semplici, attaccare chiunque entrasse al di fuori del padrone. Non doveva inseguirlo o muoversi in nessun caso, e in nessun caso si sarebbe mosso. Lasenfard non era assolutamente pronto a sfidarlo. Un giorno forse….

 

Dopo aver raccolto tutto ciò che poteva essergli utile Lasenfard si congedò dal villaggio, che lo trattò con riconoscenza e lo invitò a ritornare quando voleva. Il potestà gli conferì una medaglia per la cancellazione della magia e gli regalò le provviste necessarie per parecchi giorni. Molti furono sorpresi dal vedere che apparentemente non portava nulla con se, neanche quegli strani libri che gli avevano visto in mano di tanto in tanto. A parte il nuovo vestito, molto migliore del precedente, non sembrava che fosse affatto cambiato. Ma in realtà era come se fosse un’altra persona. Ora i suoi poteri erano molto aumentati. Se prima un gruppetto di tre orchi poteva costituire per lui un problema ora poteva sgominarne una decina con facilità. Era riuscito persino a dominare il segreto delle palle di fuoco. Sebbene le sue fossero ancora deboli erano più che sufficienti per uccidere un qualsiasi orco. Lasenfard era smanioso di provare i nuovi poteri. Voleva a tutti i costi mettersi alla prova. E così si diresse intenzionalmente nella cupa foresta attorno al villaggio. Sapeva che dentro si nascondeva un gruppo di razziatori orchi, e così si fece trovare pronto. Grazie ad un suo nuovo incantesimo poteva percepire la presenza di altre creature viventi fino a una ventina di metri da se. Questa volta fu lui che li cose di sorpresa. Dopo aver lanciato su di se alcuni incantesimi protettivi emerse dai cespugli davanti ad una decina di stupiti orchi. Dalle sue mani partirono dardi di fuoco. Ad un suo comando l’aria crepitò di mortali scariche elettriche, a una sua parola un sonno magico colpì le sventurate creature, che caddero tutte a terra tranne una. Nonostante i dardi magici l’avessero colpita era ancora in piedi, e prima che potesse lui reagire gli si gettò contro. Se la sua tunica fosse stata meno potente o il suo fisico meno allenato non sarebbe mai riuscito ad evitare quel fendente. Spiccò un salto all’indietro ed estrasse da una tasca un pugnale. Mantenendo a stento l’equilibrio affondò l’ affilata lama nel collo della creatura, rompendogli la spina dorsale. Poi uccise quegli orchi ancora in preda del sonno magico. C’era andato vicino! Qualcosa non aveva funzionato. Osservando meglio il corpo dell’orco notò uno strano anello d’oro con incastonato uno smeraldo di piccole dimensioni. Ecco cos’era stato a salvare l’orco! Era un anello di resistenza dalla magia. Chi lo indossava era parzialmente protetto dagli attacchi magici. Lasenfard lo indossò subito. Frugando nei corpi degli altri orchi morti raccolse un bel gruzzolo, probabilmente frutto di qualche rapina degli orchi ai danni del villaggio. Così aveva imparato la sua prima lezione. Non poteva fare tutto da solo. Aveva bisogno di un guerriero che lo proteggesse da problemi come quello. Ma ci avrebbe pensato in seguito. Scrisse in fretta su una pergamena una spiegazione per gli abitanti del villaggio e, fatto comparire per magia un messaggero alato lo inviò al villaggio con il pollice destro di ciascuno degli orchi. Era il suo modo per ringraziarli. Era il suo primo atto fatto per ottemperare al suo giuramento sulla tomba della madre. Pensando a questo si diresse proprio nel luogo della sua morte. Aveva un’altra parte del giuramento da mantenere. Non si era neanche accorto di aver preparato tutte le componenti necessarie per quel complicato incantesimo. Non aveva neppure notato di aver trovato una pergamena magica che gli avrebbe permesso di lanciarlo anche se era di un livello troppo superiore per lui e di poterlo lanciare senza indebolirsi. Anzi, non ricordava neppure di averci mai pensato. Eppure eccolo là, dopo alcuni giorni, davanti alla tomba. Preparò i componenti necessari, tracciò le complicate rune nel terreno e sulle rocce del luogo. Poi le parole dell’incantesimo penetrarono nella sua mente. Sotto i suoi voleri la terra si piegò e si modellò. Dal profondo della terra scaturì una sorgente di acqua cristallina. Le rocce si innalzarono da sottoterra e formarono una specie di grotta illuminata dalle aperture ai lati. L’erba e l’edera crebbero sulle rocce ammantandole di verde splendore, e a sua volta furono abbellite da fiori cresciuti come gioielli tra i verdi capelli della grotta. Le rocce in fondo alla grotta rappresentarono un ritratto del volto di sua madre, mentre sotto di esso compariva il nome e la data di morte. Lanciò poi un ultimo incantesimo. Gli alberi intorno alla tomba crebbero fino a diventare i più splendidi della foresta, e un’aura di energia positiva circondò il luogo. Gli esseri malvagi non ci sarebbero mai potuti entrare senza scuotersi tra mille tormenti. Il luogo di riposo di sua madre sarebbe stato un rifugio sicuro per i viandanti, e la signora delle rocce sarebbe stata ringraziata per la sua protezione. Sì, era un lavoro ben fatto. Ora poteva andare. Aveva sentito parlare di una guerra in procinto di scoppiare verso nord, verso Lorderon. Un’orda di orchi stava attraversando di nuovo dopo secoli le incontaminate pianure dell’Erwenfren. Era tempo di combattere di nuovo. In quella foresta, vicino a quella tomba non sarebbe mai dovuto passare un orco per il resto della sua vita.

Mai più.

 

 

Questa storia è una degli antefatti-fatti sussidiari del racconto “L’esodo dei Beoriani” presente su questo sito. Vi consiglio di leggerlo, anche se a mio avviso non è riuscito bene come questo. Sperando di cuore che vi sia piaciuto vi aspetto per il prossimo racconto, “L’esodo dei Beoriani II, dove nasce un gruppo”. Anno domini MMIII

 

 

Lainon