La Tavola Rotonda

La Difesa Personale
di Giuseppe Morabito



La parola “difesa”, così come il concetto stesso di difesa, si riferisce a quel campo infinito di possibili azioni o comportamenti che si oppongono ad un altro concetto, quello di “offesa”, in un continuo gioco di equilibri fra l’eccesso ed il difetto. Equilibri molto complicati, non solo da un punto di vista pratico ma anche e soprattutto da quello legale, che infatti definisce la difesa “legittima” solo quando questa è “proporzionale all’offesa”. Ma come si può nei brevi attimi di un’aggressione calcolare quale sia la giusta proporzionalità? O come si può definire a priori quali saranno gli effetti di una nostra azione, magari solo una semplice spinta, che si oppone ad un tentativo di aggressione nei nostri confronti? Poiché se vi sarà un “difetto di difesa” l’offesa sortirebbe il suo effetto e ne verremmo lesi, invece se vi fosse un “eccesso di difesa” compieremmo un illecito e verremmo puniti.
La prima regola da seguire per ridurre al minimo le possibilità di ritrovarci in questa complessa situazione è di aggiungere al concetto di “difesa” il termine “preventiva”, e cioè operare in maniera da risolvere a monte il problema evitando il manifestarsi della situazione stessa. Se, ad esempio, uscendo portiamo con noi l’ombrello anche se non piove, stiamo compiendo una “difesa preventiva” dalla pioggia che potrebbe cadere poi. E questo vale a tutti i livelli del comportamento umano e sociale: le armi atomiche, essendo un deterrente per la loro immensa capacità distruttiva, diventano una difesa preventiva della pace; i paraurti sono una difesa preventiva dell’integrità della nostra auto, ecc.. Da questi esempi possiamo facilmente desumere che “difesa preventiva” significa acquisire e avere a disposizione una serie di mezzi, abilità o comportamenti atti a rendere vana una eventuale offesa oppure a limitarne il più possibile i danni.
Se poi entriamo nel campo del “personale”, anche la difesa diventa “difesa personale” obbedendo alle stesse regole generali della prevenzione come scelta elettiva, il che significa arrivare ad avere a disposizione mezzi, abilità o logiche di comportamento migliori di quelle di un ipotetico aggressore.
Difendersi dal crimine in tutti i suoi infiniti aspetti comporta di conseguenza un attento studio ed una perfetta organizzazione delle difese più opportune, che non sono immutabili, ma variano a seconda delle circostanze e delle necessità di ogni categoria di persone, per età, per professione, per ambiente o anche, semplicemente, per orario giornaliero. Diversi sono i rischi che affronta la massaia quando resta sola in casa o quando esce per fare la spesa, quelli dell’anziano signore che va a ritirare la pensione, da quelli di un tassista nel suo lavoro quotidiano o quelli del poliziotto nell’esercizio delle sue funzioni. Per ognuna di queste categorie esistono regole ed accorgimenti differenti per fare si che la difesa sia “organizzata” e non affrontata con mezzi occasionali quasi mai idonei al manifestarsi delle difficoltà.
Purtroppo i tempi, non certo per nostra responsabilità, hanno da una parte ridotto le nostre libertà e dall’altra reso possibile l’aumento di una sempre più sfacciata microcriminalità dalla quale nessun cittadino è al sicuro e sarà certamente più opportuno adattarvisi se non si riuscirà presto a cambiarli.
Ecco quindi giustificato il nascere di scuole ed organizzazioni specializzate nello studio di soluzioni diverse a seconda delle esigenze. Ma come scegliere? Come definire un concetto di “qualità” nel campo della sicurezza? Basta un po’ di logica, di buon senso e magari accettare qualche consiglio da chi, come noi, da qualche decennio si occupa di queste tematiche, anche se sappiamo bene che “nemo profeta in patria”.
Innanzitutto diffidate da chi vi propone di risolvere tutto con lo scontro fisico, oppure armandovi, poiché questo vi porterebbe, se siete fortunati, in un ospedale e se non lo siete, davanti ad un giudice. Nessuna forma di difesa può prescindere dalle leggi vigenti e l’arma più è “impropria” e più mette in pericolo anche chi la usa.
Chiedete a chi vi si propone come insegnante la sua storia e il suo percorso, eviterete di essere truffati da chi si ricicla, per moda o per convenienza, all’interno di un settore in cui una falsa o errata conoscenza può mettere in gioco la vostra stessa vita. E non lasciatevi influenzare da racconti di risse o bravate, che definiscono più il vissuto di un killer che di un operatore della sicurezza. Già è più serio chi vi propone la pratica di un’arte marziale, che però richiede lunghi anni di allenamento, e non sempre, soprattutto se è vista in chiave sportiva, vi garantisce l’apprendimento di ciò che potrebbe occorrervi in uno scontro reale.
Affermazione che può apparire paradossale, ma se consideriamo che le discipline della prima generazione, che naturalmente avevano la loro ragione d'essere nell'applicazione allo scontro reale, hanno finito con lo specializzarsi nell'uso di armi (lance, spade, catene, ecc.) ormai in disuso, possiamo facilmente comprendere quanto a poco ci servirebbe oggi, in una rapina, essere maestri di Kendo, la Via della Spada, o di Kyudo, la Via del Tiro con l'Arco, senza nulla togliere a queste splendide discipline.
Lo stesso non si può dire delle discipline che invece prendono in esame il combattimento corpo a corpo, sempre che siano praticate con i dovuti riferimenti al sistema difensivo reale, e non specializzate esclusivamente al confronto agonistico, poiché per strada, non esistono arbitri, punteggi o regole di comportamento. E sempre se non si siano stilizzate in forme di combattimento di tipo "artistico" che, se pur rispondenti ai requisiti richiesti da una qualche Arte Marziale, non trovano più applicazione nella logica dello scontro reale. Se poi teniamo presente che per esprimere una valida capacità difensiva è fondamentale anche essere psicologicamente preparati a farlo, nel senso che a poco servirebbe la migliore preparazione tecnica se la nostra azione è resa incerta dal timore o dalla paura, ci renderemo conto di quanto sia difficile trovare oggi nel mondo delle Arti Marziali dei reali metodi di difesa personale.
Infine cercate, nell’imparare la difesa, di non “offendere” voi stessi con rambistiche ed assurde pratiche che mettano la vostra incolumità più in pericolo di quanto probabilisticamente un aggressore potrebbe fare.

L’arte dell’Invisibilità

Un antico metodo che non ha mai abbandonato il contesto del combattimento reale è il Ninjitsu, ovvero “L’arte dell’Invisibilità”, anche perché non ha mai avuto una forma definitiva e stabile, ma è sempre stato pronto ad accettare tutti quei cambiamenti e quelle trasformazioni che lo potessero meglio adattare all’ambiente che lo circondava. Infatti non è basato su una o più particolari tecniche, ma su un complesso di strategie fisiche e psicologiche che danno origine ad un altissimo numero di soluzioni possibili in una situazione di pericolo. Tanto alto da risultare del tutto imprevedibile (e da qui l’appellativo: invisibile) e da cogliere nella stragrande maggioranza dei casi impreparato un eventuale aggressore. Come disse Sun Tsu, il più grande stratega che la storia ricordi: “Ci sono cinque colori, ma la loro mescolanza da origine ad un così alto numero di tonalità che anche se un uomo vivesse cento vite non riuscirebbe a vederle tutte!”. Una disciplina a tutto campo quindi, che sfrutta tutte le potenzialità umane e che presuppone una completa e profonda conoscenza di se stessi ed un perfetto controllo delle proprie emozioni. Anche perché questo metodo, contrariamente a quello che si potrebbe pensare, tende ad evitare con ogni mezzo lo scontro fisico, proprio perché lo conosce molto bene e sa quanti pericolo e rischi siano ad esso collegati e lo accetta solo quando non esistono altre possibilità. Per gli orientali infatti, esistono tre livelli di vittoria: vincere dopo aver combattuto, combattere dopo aver vinto e vincere senza combattere. Vincere dopo aver combattuto significa scontrarsi con tutte le proprie forze cercando di prevalere su un avversario. Combattere dopo aver vinto vuol dire arrivare ad una tale conoscenza delle tecniche di combattimento che il verificarsi del medesimo sia una pura formalità per conseguire la vittoria. Vincere senza combattere è invece la forma più alta di vittoria e consiste nell’agire senza trovarsi mai nella condizione di essere attaccati. Da questi concetti si può facilmente comprendere come il Ninjitsu più che una tecnica sia una maniera di usare la tecnica, più che un metodo sia una filosofia e più che un’Arte sia una “non Arte” poiché non segue schemi rigidi e chiusi, ma flessibili ed aperti. E sempre per gli stessi motivi risulta difficile dare una definizione a questa disciplina, poiché spazia in tutti i campi dello scibile umano, l’unica cosa che è certa è che poche altri metodi hanno raggiunto l’efficacia del Ninjitsu nel combattimento reale, probabilmente perché è una delle poche discipline che ha codificato non solo il cammino fisico, ma anche e soprattutto quello psicologico.
Dal Ninjitsu la “Koshiki Ryu, Scuola delle Cose Antiche”, (www.koshikiryu.com), con la sua trentennale esperienza nello studio delle discipline del confronto ha tratto il suo metodo di difesa personale (P.S.P.) che fonde in se principi antichissimi con modernissime teorie. Un percorso formativo molto semplice, diviso a livelli e quindi adattabile a tutte le esigenze, che può dare a chiunque, oltre all’abilità di organizzare al meglio la propria difesa, qualcosa di molto più prezioso: la capacità di credere in se stesso e la forza e il coraggio di realizzare i propri sogni e le proprie aspirazioni.


Fight or Flight?
(Meglio combattere o meglio fuggire?)

Chiunque si ponga per la prima volta di fronte ad una disciplina del confronto si trova a dover affrontare quello che io chiamo il “paradosso marziale”, che consiste nell’apparente incoerenza che vi è fra il passare ore e ore a studiare: pugni, calci, proiezioni, leve, strangolamenti, ecc., e professare al tempo stesso: amore, armonia, fratellanza, non violenza, e così via. Quando però il giudizio trascende la pura esteriorità delle nostre discipline, e se ne comprendono i significati e soprattutto le motivazioni, l’incoerenza svanisce e si diventa tutti concordi che pochi altri percorsi possono dare all’individuo le stesse possibilità di conoscenza di se stessi e di sviluppo delle proprie potenzialità. Il confronto, se sottoposto a precise regole che lo rendano incruento e cioè non pericoloso, è un ottimo laboratorio di sperimentazione, che consente di accedere a moltissimi meccanismi psicofisici che sono alla base del funzionamento del nostro organismo. Basti pensare al “Fight or Flight Reaction” (riflesso combatti o fuggi) che è un processo legato al primario istinto di conservazione che il cervello mette in atto quando vede minacciata in qualche modo l’incolumità fisica. Istantaneamente il sistema endocrino immette in circolo epinefrina, norepinefrina ed una certa quantità di endorfine. I primi due sono precursori dell’adrenalina, ormone che aumenta immediatamente il ritmo cardiaco, la pressione sanguigna ed accelera la respirazione allo scopo di produrre e mettere a disposizione dell’organismo una grande quantità di sangue ossigenato di cui hanno bisogno i muscoli per sostenere la violenta spesa energetica necessaria per affrontare o fuggire dalla situazione di pericolo. Le endorfine invece sono anestetici naturali, una sorta di droghe (legali poiché prodotte in proprio dal nostro corpo) che rendono praticamente quasi insensibili al dolore. Ciò permette di combattere molto più forte di quanto si creda possibile, oppure di correre molto più velocemente di quanto si possa pensare. Gli esempi sono tanti, alcuni clamorosi: la vecchietta di ottanta anni che stende a cazzotti (senza aver mai praticato karate) quattro nerboruti rapinatori che volevano privarla della borsa della spesa; la madre di 50 Kg che è riuscita a sollevare da sola il TIR che imprigionava il figlio vittima di un incidente stradale; l’uomo che detiene il record di salto in lungo, che non è un atleta, ma una persona normale che, inseguita da una tigre, ha superato in un balzo un crepaccio largo 15 metri (la tigre si è fermata dall’altra parte). Al di là di questi eclatanti esempi però, non sempre l’effetto dell’ “adrenalina dump” (accelerazione dell’adrenalina) è ben sopportato dagli individui non allenati. Possono verificarsi tremori, una troppo forte agitazione che rende maldestri, poiché viene a mancare a causa della vasocostrizione prodotta dall’adrenalina e del cospicuo afflusso di sangue ai maggiori gruppi muscolari, buona parte della sensibilità nelle mani e nei piedi, e può addirittura risultare impossibile effettuare tecniche motorie complesse come aprire una porta o comporre un numero telefonico. Per cui questo meraviglioso meccanismo di autodifesa che tutti possediamo naturalmente, se non ben gestito, può essere totalmente inutile. Difficilmente però questo avviene a chi pratica una disciplina del confronto poiché sviluppa capacità istintive di movimento straordinariamente efficaci. La “memoria delle tecniche” infatti non risiede nella mente, ma nei muscoli. Attraverso un alto numero di ripetizioni dello stesso movimento finiamo con il condizionare il nostro corpo a dare una immediata risposta ad una particolare situazione percettiva che corrisponda al massimo all’opportunità migliore di applicazione di una determinata tecnica. Quindi le tecniche vengono applicate istintivamente senza che sia coinvolta la mente cosciente. Del resto il nostro cervello non sarebbe in grado di pensare a più di una cosa o massimo due per volta, mentre la preparazione media di un esperto di sicurezza richiede l’applicazione corretta di circa una trentina di movimenti diversi. Ecco perché le filosofie del combattimento parlano di “non mente”, di “non pensiero” o, per dirla alla giapponese, di “mu-shin”. Se la risposta ad un attacco fosse “pensata”, o basata su un’elaborazione della risposta che permettesse la scelta fra più soluzioni possibili impiegherebbe un tempo troppo lungo se paragonato alla velocità degli atti offensivi. L’accelerazione adrenalinica non ha tuttavia solo effetti puramente fisici, ma aumenta notevolmente anche la velocità dei processi mentali di tipo percettivo. Si può avere infatti l’illusione che gli eventi si susseguano a rallentatore. A tutti è infatti capitato di dire dopo aver vissuto un brutto momento: “sembrava non finisse mai!” non certo per l’effettiva durata, quanto perché la nostra più rapida percezione degli avvenimenti falsa il nostro concetto temporale. Ma anche in questo i praticanti delle discipline del confronto sono avvantaggiati, poiché il continuo cambio di partners di allenamento porta ad un naturale adeguamento delle proprie azioni a ritmi e tempi diversi. Non ci si può infatti difendere correttamente da un attacco prima che questo non sia portato fino ad un certo punto, o dopo che sia giunto a raggiungere la sua efficacia, quindi in una qualsiasi tecnica la scelta del tempo non può essere fatta a priori, ma deve coincidere con il momento migliore di applicazione che dipende in gran parte dalla velocità di movimento dell’avversario, che essendo esterna alla nostra volontà ci costringe ad un continuo adeguamento dei nostri movimenti a ritmi variabili. Da questi parziali esempi è facile comprendere come la pratica di una disciplina del confronto porti un individuo ad avere un superbo controllo non solo dei processi consci ma anche di quelli che per la maggior parte degli uomini sono totalmente inconsci. E se la pratica è corretta e l’applicazione è costante si può anche ottenere di più, e cioè la capacità di scatenare volontariamente i processi mentali automatici come il “fight or flight reaction” sia che lo si faccia in un momento di bisogno per ottenere una maggiore dose di forza e di attenzione, oppure per preparare nel tempo di “un solo pensiero” il proprio corpo e la propria mente a compiere gesti di notevole potenza, velocità e precisione.

Oriente e Occidente

Se Freud avesse conosciuto questa disciplina la avrebbe senza dubbio definita di confine “zwischen Traum und Wirklichkeit” e cioè fra il “sogno” e la “realtà”, in quanto il punto di divisione di queste due dimensioni risulta facilmente collocabile ragionando con il nostro occidentalissimo positivismo scientifico, ma quasi impossibile da dimensionare nella olistica concezione orientale dell’uomo e dell’universo. Nella nostra cultura, infatti consideriamo scienza esatta la fisica o la chimica, anche se non riusciamo a capire come fa un “fotone” ad avere un comportamento corpuscolare come se fosse fatto di materia, e al tempo stesso ad essere un onda elettromagnetica e cioè pura energia, oppure perché una molecola di DNA prodotta sinteticamente non si riproduce e non crea un nuovo individuo; mentre consideriamo superstizione l’astrologia e la divinazione del futuro però non manchiamo mai di leggere l’oroscopo sul nostro quotidiano abituale oppure di chiedere alla cartomante di turno come andrà il lavoro, la salute o l’amore. Il pensiero orientale è invece da questo punto di vista molto meno contraddittorio e quasi mai tende a mettere confini fra corpo e psiche o fra naturale e sovrannaturale. La stessa conoscenza per un orientale è considerata di scarso valore se non è "sentita" oltre che "pensata", e la logica occupa un posto abbastanza limitato nello schema delle cose, se non è addirittura considerata un impedimento in una serie abbastanza vasta di esperienze umane. Lo stesso Einstein ha dimostrato con la sua teoria della relatività che ogni verità non è mai assoluta, ma sempre relativa ad un sistema di riferimento e di conseguenza che la stessa verità può essere diversa a seconda del sistema di riferimento dal quale la si considera. Ma nonostante questo noi continuiamo a credere alcune cose possibili ed altre impossibili senza considerare che molto dell’impossibile e tale solo perché non riusciamo a darne una spiegazione, non rendendoci conto che con questo comportamento saremo noi stessi a rendere “impossibile” a noi stessi una comprensione più globale del pensiero umano.

Storia o Leggenda?

Una delle abilità più straordinarie attribuite dalla leggenda agli antichi Guerrieri dell’Ombra, era la loro capacità di “leggere il pensiero” oppure di essere capaci di manipolare la personalità degli avversari fino al punto di forzarli ad ubbidire ai loro ordini. Sebbene questa, come molte altre leggende, non fosse altro che una esagerata visione delle abilità psichiche dei guerrieri Ninja, non si può negare a nessuna filosofia orientale, e tanto meno al Ninjitsu, una veramente profonda conoscenza dell’animo umano. Infatti uno degli aspetti che maggiormente differenzia il pensiero orientale da quello occidentale è appunto un maggiore impegno del primo verso una conoscenza e una speculazione introspettiva e cioè verso il dominio di se stessi, mentre le nostre culture hanno teso più che altro ad una speculazione di tipo positivo-scientifico, ponendosi come obiettivo preferenziale il controllo fisico e tecnologico dell’ambiente che ci circonda. Di conseguenza i Ninja, forse i più validi combattenti che la storia giapponese ricordi, hanno sempre fatto largo uso del potere mentale anche perché consentiva loro di ottenere lo scopo che si erano prefissati senza affrontare i rischi di uno scontro fisico. All’interno di un conflitto era molto più semplice ottenere informazioni ed evitare conflitti, conquistandosi amicizie e simpatie nelle fazioni avverse fino ad entrare in confidenza con il nemico stesso, piuttosto che agire con metodi violenti e brutali, che tra l’altro avrebbero tradito la presenza di un infiltrato, rompendo la leggendaria “invisibilità” dei guerrieri dell’ombra. Nei loro metodi di allenamento vi è infatti una vasta gamma di esercizi mentali, che portavano il praticante sia verso un totale ed assoluto controllo del proprio io e della propria personalità, permettendogli di modificarne i tratti a suo piacimento secondo le necessità imposte dalla situazione; sia verso una straordinaria capacità di comprensione e analisi della personalità altrui, che gli consentiva di prevedere ogni mossa dell’avversario trovandosi così sempre in vantaggio su di lui. Il loro metodo analitico era basato sul fatto che tutti gli esseri umani hanno le stesse basi psicologiche, le stesse esigenze e gli stessi desideri. Ciascuno di questi rappresenta di conseguenza una potenziale area di vulnerabilità che può essere utilizzata come bersaglio recettore di una volontà imposta che porta nella maggior parte dei casi l’individuo a compiere una determinata azione in risposta ad un determinato stimolo. Il Ninja quindi, una volta stabilita attraverso un attento studio dei comportamenti, soprattutto non verbali (suono della voce, movimenti del corpo, atteggiamenti relativi a varie situazioni, ecc.), quale fosse la linea comportamentale dell’avversario, poteva agendo sui punti deboli della sua personalità portarlo a compiere azioni che fossero in grado di favorire i suoi scopi, oppure prevederne con una notevole esattezza i comportamenti relativamente alle situazioni nelle quali questi fosse venuto a trovarsi. Nel Ninjitsu, così come nella moderna difesa personale, le tecniche di manipolazione della personalità o altre tecniche di controllo psicologico, sono usate per evitare situazioni potenzialmente pericolose di scontro fisico. Potremmo anzi definire l’arte dell’invisibilità come uno dei primi metodi di “guerra psicologica” che la storia ricordi, infatti non è basata su una o più particolari tecniche, ma su un controllo totale dell’universo psichico in cui avviene il combattimento.
Questa capacità di “controllo” dipende essenzialmente da tre fattori. Il primo di questi è la propria personalità, che dovrebbe possedere la massima capacità di adattamento all’universo psichico in cui avviene il combattimento ed esprimere a seconda delle circostanze l’atteggiamento più idoneo alla situazione. Il che non significa rinunciare ad una propria identità, ma evitare di commettere grossolani errori comportamentali che aggravino ulteriormente una condizione già di per sé critica. Prendiamo, ad esempio, l’incapacità assoluta che hanno molte persone di non reagire agli insulti, questo li renderà estremamente vulnerabili e manipolabili, poiché a chiunque abbia convenienza per un proprio fine, basterà una parolaccia o un gesto sgarbato per provocare una reazione tale da giustificare una colluttazione, la cui colpa e responsabilità, anche da un punto di vista legale, ricadrà interamente sull’aggredito. Ricordiamoci che anche se la difesa raramente è “organizzata”, l’offesa lo è quasi sempre!
Per arrivare a ciò veniva praticata nel Giappone medievale dai Guerrieri dell’Ombra una vasta gamma di esercizi mentali denominati “Yama o Harau” (eliminare gli ostacoli) tendenti a togliere alla propria psiche tutte le paure, i limiti e i tabù accumulati durante il processo di crescita e di maturazione psichica. Questi “limiti”, che possono essere fisiologici o naturali (come l’istinto di conservazione, la paura della morte, ecc.) oppure accidentali o imposti (traumi infantili, convenzioni sociali, ecc.), comunque contribuiscono a bloccare gran parte delle azioni possibili dell’individuo rendendone prevedibile, e di conseguenza controllabile, il comportamento nella maggior parte delle situazioni in cui viene a trovarsi. “Eliminare gli ostacoli” significa quindi avere a disposizione, in ogni momento, tutti i comportamenti possibili e di conseguenza un così alto numero di soluzioni da risultare del tutto imprevedibile a chiunque.
Un tipico esempio di “Yama o Harau” è l’apprendimento delle tecniche di rottura della caduta, è cioè di quelle tecniche che consentono di cadere, rotolare o saltare, salvaguardando il corpo da qualsiasi lesione. Cadere è infatti un azione alla quale il nostro istinto di conservazione si ribella, identificandola come qualcosa di completamente innaturale, però attraverso un alto numero di ripetizioni dell’azione stessa non solo viene a cessare la sensazione di disagio e di paura relativa a un violento impatto con il suolo, ma si arriva a ritrovare il gesto piacevole se non addirittura divertente, ribaltando del tutto la situazione interna iniziale e fornendo di conseguenza una doppia possibilità di scelta (cadere o recuperare l’equilibrio) a chiunque e per qualsiasi ragione si ritrovi in una condizione di equilibrio precario. Questa stessa logica, se applicata a tutti gli altri fattori che limitano la psiche umana, diversificata ovviamente a seconda della tipologia del blocco da rimuovere, consente di ottenere quella libertà totale ed assoluta necessaria per potersi definire veramente “proprietari della propria psiche”.
Il secondo fattore determinante ai fini di una buona organizzazione della difesa è la capacità di analisi della personalità e soprattutto delle motivazioni dell’aggressore. Naturalmente parliamo di un analisi d’impatto, visto che gli aggressori non sono soliti sdraiarsi nel nostro salotto a raccontarci la loro infanzia. Chiunque di noi, anche se non ha studiato psicologia, è comunque in grado in pochissimi istanti di capire se ha davanti una persona spaventata o tranquilla, incerta o determinata, consapevole o meno di quello che sta facendo, ecc. E ancor di più di definire la motivazione dell’aggressione stessa, anche perché le ragioni che possano portare un essere umano ad aggredirne un altro sono solo cinque e facilmente distinguibili: rabbia, divertimento, estorsione, lesione e violenza sessuale.
L’aggressione per rabbia è la più frequente e avviene quando una nostra azione, non necessariamente volontaria, scatena un tale impeto d’ira in qualcun altro da far si che si avventi contro di noi. Quella per divertimento di solito viene operata da gruppi di persone che godono del perverso gioco di sottomettere, umiliare e maltrattare una vittima, spesso al solo scopo di cercare di dimostrare una patologica forma di superiorità, come avviene, ad esempio, nel “nonnismo” delle caserme, nelle tifoserie sportive, nelle bande da discoteca, ecc. L’aggressione per estorsione si verifica quando qualcuno vuole indebitamente appropriarsi del nostro denaro o di un bene in nostro possesso. La quarta, la più pericolosa, si ha quando qualcuno decide coscientemente e deliberatamente di farci del male. Per fortuna è la più rara e non avviene mai casualmente ma è sempre e comunque collegata ad un nostro vissuto. L’ultima, la più aberrante di tutte le violenze possibili, non ha bisogno di spiegazioni.
Il terzo ed ultimo fattore determinante è la nostra capacità pratica di gestire uno scontro fisico, questo non, come abbiamo già detto, per risolvere attraverso di esso una situazione di pericolo, ma perché è quasi impossibile difendersi da qualcosa che non si conosce. Una buona conoscenza del confronto fisico infatti permette una relativa tranquillità interiore in una situazione di aggressione, che a sua volta consente una migliore, più lucida ed appropriata risposta alla situazione stessa.
Del resto finché “solo i cattivi” sapranno fare a botte, saranno sempre “solo i buoni” a prenderle!

 

Ninja